Finalmente andrò alle Fær Øer, un posto non lontanissimo ma sicuramente sconosciuto. E poi quel nome coi due dittonghi. Non fai in tempo a chiudere la bocca dopo la “æ” che devi spalancare le fauci per quell’altro suono compreso tra la “o tagliata” e la “e”. Rischi che una manciata di moscerini ti entrino in bocca senza nemmeno accorgerti. E poi come si pronuncia questo nome assurdo? Se non riesci a slogarti la mandibola a furia di tenerla aperta, c’è il serio pericolo che le corde vocali saltino. Per cui ho deciso: vado alle “Faroe”, lo dico prendendo in prestito il nome inglese. Loro sì che sono avidi di vocali e smozzicano le parole. Fanno fatica a tenere le fauci spalancate. Mi accontento ben volentieri di quel suono gutturale incastrato tra la F e la R… E così siamo apposto.
Dopo questa doverosa introduzione, mi preme chiarire che il nome del viaggio, intitolato 62N, si riferisce alle coordinate del parallelo Nord, lungo il quale sono dislocate le 18 isole dell’arcipelago. Mi affascina ricordarmi il numero, sembra una sigla oscura piuttosto che un riferimento geografico. D’altronde tutta la vita dei faroesi si limita a quella coordinata; è un punto di riferimento preciso, inamovibile per un territorio davvero piccolo. Un po’ come alle Seychelles dove erano fissati con la sigla 7S (il settimo parallelo Sud).
Dunque, perché le Faroe, o le Fær Øer per i più audaci? Sono secoli, beh non esageriamo, ma almeno un lustro buono, che il mio desiderio era di andare in questo luogo. Di preciso non so la motivazione, ma sicuramente sono sempre stato attratto dal Nord, dall’umidiccio, dal verde, dall’ambiente bucolico, popolato da pecore. Sin dall’adolescenza (tardivissima nel mio caso) ho preferito l’ordine (Mater scuoterebbe la testa, ma non diteglielo), mi sono lasciato tentare dalla luce soffusa, dai mesti paesaggi della tundra, dalla solitudine e dal contatto con la natura. L’Europa non offre molti spazi, diciamocelo con tutta sincerità.
Le Faroe erano -da quelle parti-, nel mio immaginario collettivo; erano “su”, in alto, sperse nell’Atlantico. E nel Nord mi sono sempre rifugiato durante i momenti bui e tempestosi. Niente di meglio che passeggiare sul ponte di Trømso accarezzato sulla schiena dalla luce crepuscolare del sole di mezzanotte; sfamare le renne con le bustine di zucchero (credo che ci sia stata un’alta concentrazione di carie tra quegli animali), perdersi tra le innumerevoli isole di Ålesund (il cerchietto sulla A mi mancava), camminare sul bordo del precipizio lungo la dorsale dei fiordi, scivolare con il gatto delle nevi (che non è Jake) per i pendii vertiginosi dello Snaefellsjoekull.
Che poi le Faroe, almeno in Italia, siano diventate famose per il calcio, questo mi risulta oscuro e non mi interessa. Lo stadio di Tórshavn, poco più grande di un campetto dell’oratorio (spero di non essere insultato da nessuno), è una tappa obbligata per i gitanti della capitale. Ma sinceramente non me ne può interessare di meno.
Dunque, sono su questo aereo della SAS per Kastrupp, l’aeroporto di Copenaghen (non so mai come si scriva, visto che l’h la puoi mettere dove vuoi a seconda del nome inglese, italiano o danese). Per ora un volo tranquillo, soprattutto sollevato nel morale e nello spirito dopo aver appreso che il vagabondo di Jake è tornato a casa. Avrei voluto gridare di gioia quando ho saputo della comparsa del bastardo, ma penso che mi avrebbero caricato su un’ambulanza e portato via e poi… altro che Faroe!
Questi della SAS, vecchiardi e milfone, mica i giovinazzi della Easyjet, mi fanno molta pena con le loro rughe. Mi aspetto da un momento all’altro di vedere la pubblicità dei pannoloni, di quelli usati quando le donne hanno le “perdite”. E poi ti hanno offerto solo una tazza di tè: marcioni e taccagni. Se avessi voluto altro avresti dovuto strisciare il bancomat nel “pos”.
Ma va bene così. Fino a Copenaghen posso arrivarci senza andare in ipoglicemia. E poi si vedrà. L’albergo, della catena Radisson, senza charme, è proprio a due fermate della metro dall’aeroorto. Non si può sbagliare. C’è solo la linea gialla e si scende a Femøren. Quando ho associato il nome danese alla parte anatomica, mi sono messo a ridere come un cretino, rischiando di inciampare nel gap tra il treno e la piattaforma e di rompermi, appunto un femore.
La Metro mi sembra a prova di idioti. Al limite passerò la notte in qualche centro sociale di Christiania o vado a salutare la Sirenetta sempre che non le abbiano tagliato la testa. Ogni tanto la perde.
Domani alle 11, il volo successivo per Vagar.
Alla Malpensa ho fatto il figo. Alla hostess ho detto che dovevo andare a Vagar. Non so cosa abbia capito, se per caso avessi richiesto una pastiglia di Viagra. Poi, dopo aver letto la prenotazione sul computer, ella, radiosa, mi fa: “ma la destinazione finale è l’aeroporto delle Faroe!”.
Io gelido, rude come un orso, le ho risposto: “Appunto! Gliel’ho appena detto”. E mi stampa una sola carta di imbarco per tutt’e due le tratte. Sempre più tirchi questi della Sas.
Ok, l’aereo sta scendendo, mi devo ricomporre prima di atterrare. Me la sono presa comoda, visto che l’Airbus A321 è praticamente vuoto. Ho occupato tutti e tre i sedili. Macchina fotografica, diario, computer e fogli di carta in delizioso ordine sparso…. A domani