Il secondo giorno è iniziato a Copenaghen ed è finito a Torshavn. In mezzo qualche migliaio di chilometri, un volo, un trasbordo con la linea metropolitana, due aeroporti e tanto mare. Al Kastrupp sono arrivato di prima mattina e mi sono lasciato meravigliare dagli aerei e mi sono posto tante domande esistenziali e idiote chiedendomi del perché l’aereo della AirGREENland fosse rosso. Quando dico di essere scemo dovete credermi.
Tralascio la descrizione del volo Sk 1777, sovrapponibile a quello di ieri. Le solite hostess rugose, il tè con il lattino. La vichinga seduta due seggiolini in là stava pasturando da un’insalatiera contenente non so cosa. Per fortuna che non era vicino a me, altrimenti il piatto di biada puzzolente l’avrei scaraventato giù dall’aereo.
Arrivati a Torshavn, la brezza pari all’intensità di un tornado, mi sferza il volto. Ovviamente il brianzolo che è in me, stoico, è sceso con la camicetta di cotone e le mezze maniche. Non c’era bisogno di osservare la gigantesca bandiera dell’aeroporto di Vagar per trovare conferma di essere arrivati alle Faroe. Bastava guardarsi attorno.
E tutto era di una bellezza commovente. Non sapevo di preciso cosa guardare perché appena fissavo una cosa, venivo immediatamente attirato da un’altra. Lo stupore del contrasto estremo, i prati dolci ondulati che precipitavano in verticale in dirupi come ferite aperte.
Subito la mia prima scarpinata attorno al lago. Maledetto me quando dico; “tanto è là”: quel “là” potrebbe essere benissimo a 4 chilometri non essendoci ostacoli in mezzo. Lascio la mia potente auto, nera scintillante e pulitissima (immagino quando la restituirò) al bordo del sentiero e inizio a camminare verso quel punto “in là” che non arrivava più. All’andata era anche carino, una passeggiata al fresco, sotto il cielo azzurro-nuvoloso-soleggiato-ombroso-minaccioso-terso delle Faroe. Il repentino cambio del tempo si rifletteva sul mio stato d’animo. Passavo dalla gioia incondizionata al cupo terrore. Facevo slalom tra le pecore che ignoravano i miei pensieri e brucavano placide.
Arrivo alla meta, sul costone del precipizio, sospeso a 300 metri sul mare. Da una parte il dolce declivio verso il lago, tempestato da una miriade di cacchine tonde tonde delle pecorelle, dall’altra a poco meno di un passo di scarpone, il vuoto e la vertigine sull’azzurro. Beh, voglio rimanere qui pensavo tra me e me. Non riuscivo ad avanzare oltre, per fortuna, altrimenti sarei ruzzolato giù. Dopo uno sforzo titanico, ho dovuto rifare il sentiero del ritorno e la mia baldanzosità mi ha lasciato. Guardavo verso l’infinito sperando di scorgere la mia Citroen 4 ma non ne vedevo l’ombra. Arrancavo ad ogni passo, sopravvivendo al dolore muscolare, al dolore fisico. Avevo le allucinazioni. Speravo che un Cris Hemsworth mi venisse a prendere col suo Falcon da guerra e mi salvasse. Volevo pestare i piedi e gridare come un bambino ma probabilmente anche le pecore mi avrebbero ignorato.
La fame mi attanagliava, ero allo stremo delle forze, ormai mi trascinavo coi gomiti e mi tuffavo nei fiumi in piena. Beh, non proprio così ma la mia immaginazione fervida era assolutamente ingannevole. In fondo era solo una piccola passeggiata.
Raggiunta l’auto, dopo aver salutato gli ovini, mi fiondo immediatamente al primo Bennet, in fondo alla strada e ho fatto razzia, o meglio avrei voluto prendere tutte le più schifose cose ma visti i prezzi, mi sono contenutissimo. Ci voleva una palanca di Corone….
All’albergo, finalmente, dopo aver raggiunto l’agognata meta, mi lascio andare sul letto, promettendomi che per nessuna ragione al mondo mi sarei alzato, ma è bastato solo uno sguardo dalla finestra che, dopo una breve doccia, mi sono diretto verso la baia di Torshavn. Alla faccia, ho pensato, dormirò al rientro.
E così via, tra le casettine della capitale, tra un fish e un chips (untisssssssimo), tra i riflessi delle barche sull’acqua immota… Fino a quando, davvero, sono stramazzato a terra, sui gradini della cattedrale. Un vero eroe faroese, caduto per la gloria….