E per finire l’ultima giornata qui alle Faroe, anzi mezza perché l’altra è stata occupata dal viaggio.
L’albergo Vagar, che fantasia, si trova a fine pista dell’aeroporto. È una costruzione in legno, poco evidente ma offre una bella visuale sulla pista. Come dicevo, per fortuna che non si tratta del LAX altrimenti non sarei riuscito a dormire.
Gestione femminile, come del resto tutte le attività turistiche. Ieri ho cenato ma dopo avermi portato il trancio di salmone e le patate al forno nessuno sì è interessato a me. Potevo anche non pagare che tanto nessuno ha segnalato il mio nome o la stanza. Infatti, alla reception stamane, al check out, mi era stato detto che era tutto a posto. Perché sono stato onesto ma potevo davvero non pagare.
Non sapevo come impiegare le due ore che avevo a disposizione. Andare alla capitale Thorshavn avrebbe richiesto molto tempo, così ho bighellonato nei paesi dell’isola e, visto che avevo i tunnel già pagati, mi sono fatto l’ultimo giro nella galleria sottomarina solo per lo sfizio di farla.
Appena attraversato il tunnel mi sono fermato nel primo paesino, sulla spiaggia. Il cielo come al solito era incerto e non scaldava per niente. E poi si chiedono come mai il turismo, nonostante le Faroe siano state dichiarate le isole migliori del mondo, non decolli. Eccicredo, con questo freddo.
Il dramma è stato fare il pieno all’auto. 850 km e non mi ero ancora fermato dal benzinaio. L’unico disponibile in tutta l’isola era a circa otto chilometri dall’aeroporto. Ovviamente c’era l’assembramento. Non ho mai visto così tanta gente in dieci giorni di permanenza.
Al mio turno, non sapevo come aprire lo sportellino del tappo. Tiro una leva, si apre il cofano, schiaccio lo sportellino non succede niente, inizio a pregare e a cercare qualche indizio che mi aiuti a risolvere il problema. Intanto sentivo la rabbia montare dalle auto che erano in coda. Alla fine, lampo di genio, schiaccio l’unico pulsante con su l’icona di una pompa di benzina. Evvai, alleluia, ce l’ho fatta.
Diesel, mica da sbagliare. Infilo ben due guanti, osservo guardingo le pompe, due verdi e una nera. Decido per quella nera, ma c’è un pulsante con accanto un pittogramma di un camion. Lo ignoro, mi viene l’ansia, inalo l’odore del diesel, sto per svenire. Sento il nervosismo montare. Oddio, è così difficile fare il pieno?
Spero funzioni tutto, pago, chiudo il cofano che avevo aperto e scappo di corsa. Che fatica.
In aeroporto, è stato tutto un self-service. Dalle macchinette della SAS e dell’ATLANTIC AIRWAYS potevi stampare sia la carta di imbarco sia il tagliandino da appiccicare attorno alla maniglia della valigia. E così la buttavi sul nastro e via. Semplice. In cinque minuti. Così anche per il controllo al metal detector è stata una passeggiata. Ovviamente nessun controllo del passaporto. Potevo essere chiunque. L’aereo della SAS proveniente da CPH era in evidente ritardo, speravo tanto che bastasse per farmi slittare la coincidenza così da poter dormire nella capitale danese. Invece in meno di un’ora l’aereo era pronto e siamo saliti in cinque minuti, dopo altrettanti eravamo sulla pista di rullaggio. Ero sconcertato dalla puntualità e dalla funzionalità nordica. Non uno step sbagliato nella sequenza del decollo. Fossimo stati in Italia avremmo atteso chissà cosa, avremmo imprecato e recitato almeno una cinquina di rosari.
Il volo è stato piacevole, era sereno fin sopra la Norvegia e parte della Danimarca. Su CPH invece c’era tempo da lupi. Atterrati in perfetto orario, anzi con qualche minuto di anticipo. Delusissimo, ero pronto a percorrere l’intero aeroporto, invece il gate era proprio accanto. Non ho dovuto fare nulla, solo aspettare che partisse l’altro aereo. Il mio desiderio di una notte folle a CPH è svanito; mi attendeva solo la romantica Brianza.