Come avevo previsto, il venerdì di oggi è stato parzialmente impiegato per la ricerca di un posto dove fare il test CPR covid necessario per tornare a casa. Su internet ho trovato mille indirizzi ma nessuno utile che mi desse informazioni precise. Non sono andato subito all’ospedale, il Dr. Sulman Habib Health Care City che mi aveva indicato il signore gentile di due giorni fa, solamente perché nelle tremila fermate della metropolitana avevo visto un Covid Center con tanto di tenda.
Così stamattina, di buona lena, siamo andati fino alla fermata Max (che è un negozio di moda). Il tragitto non passava proprio. Sono oltre 20 fermate ma almeno c’era un cielo azzurro e lo spettacolo della città era proprio bello. Arrivo, sperando di essere fortunato al primo colpo, all’ingresso della tenda, dove un signore della sicurezza mi informa che i risultati non saranno pronti prima delle 36 ore. Ma come? Devo partire proprio domani.
Mi suggerisce di recarmi presso l’Ospedale Americano ma non capisco bene il nome della fermata. Non me l’ha scritto da nessuna parte. Torno in metropolitana, chiedo alla bigliettaia dell’ATM ma la vedo confusa e felice dopo una lobectomia frontale. Non mi resta che andare all’ospedale che mi era stato suggerito. Poche fermate, cambio con la verde (vicino alla chiesa dove Mater domenica scorsa aveva sentito la messa) e arriviamo alla fermata Dubai Healthcare City. Insomma, una garanzia.
Uscito dalla fermata, mi fiondo nel primo ospedale il Dubai Healthcare City. L’altro ospedale si trovava dalla parte opposta. Tanto, mi dicevo, un ospedale vale l’altro. Entro e mi dirigo al CUP dove una gentile signora, protetta da un nerboruto uomo della security, mi dice che no, non li fanno i tamponi per gente sfigata come noi. Mi indica un’altra tenda poco fuori, ma mi impunto dicendo che se è un altro Covid Center è inutile perché danno i risultati entro le 36 ore. Quando deve partire, domani, early in the morning, cinque. Ok, allora vada in questo ospedale il WellCare Hospital, ma deve andare in taxi. La security mi accompagna fuori e parla direttamente al tassista.
Procediamo verso gli svincoli delle autostrade e dopo cinque sei chilometri, dopo aver superato il Creek, arriviamo in questo ospedale. C’è una tenda, ma non fanno tamponi, o almeno non nel tempo che voglio. Sono veramente amareggiato.
Mi viene consigliato di andare all’HMS Al Garhoud Hospital, 10 minuti di passi a piedi, proprio dietro la fermata della metropolitana GGICO. Ok, non demordo. Tanto sono in ballo, balliamo fino in fondo. In realtà, l’altro ospedale è proprio vicino. Nel piazzale antistante c’è una moltitudine di sedie di plasticaccia bianca. Vengono distribuiti numeri come se fossero quelli della lotteria. Finalmente un posto dove fanno il test entro le 12 ore. Evvai! Sceglio una sedia sotto il sole caldo, comunque piacevole. Mi sembrava di essere al parcheggio del Bennet. 40 persone prima di me. Ma la fila scorre. 599, fivehundredninentynine, five-nine-nine. I numeri vengono snocciolati come quando gridava la Vanna Marchi. Chi offre di più? Io, sono il 605… E va bè. Dopo un’ora paghiamo e facciamo il tampone.
L’infermiere con estrema grazia usa il tampone come se fosse una stecca da bigliardo. Ora ho la galleria del vento al posto delle narici. Almeno una cosa l’abbiamo fatta. Alleggerito, ma con il naso colante, riprendiamo la metropolitana del ritorno. Ho la smania di andare all’Expo ma Mater deve fare le ultime compere. Mi metto in modalità sopportazione e le consiglio di andare al Dubai Mall, un posto dove entri senza sapere se ne uscirai vivo. Maciniamo i chilometri, tra le migliaia di negozi. Usciamo proprio nel piazzale del Burij Kalifa. Due foto di rito, un gelato, qualche souvenir e alle 13 sono libero ufficialmente.
Possiamo andare finalmente all’Expo. Mi dispiace sapere che è l’ultimo giorno, e ultima possibilità di vederlo ma la vita deve andare così e posso ritenermi così fortunato. C’è un cielo miracolosamente terso, mi saluta senza una nuvola. Sono quasi commosso. Conto i passi, rallento, guardo le forme dei padiglioni, dell’architettura futuristica che si staglia nel cielo blu. Questa volta procedo senza scervellarmi. Petalo blu, Angola (bello, gigantesco, senza grosse pretese), Danimarca (boh, non c’era niente), Polonia (solo tanto fumo quello esterno per ricordare l’umidità della Povacchia), Belgio (coi disegni dei Puffi), Korea (anche in questo padiglione non ci ho capito molto). Passiamo al petalo giallo/arancione, Inghilterra (defunto il padiglione, ancora chiuso), altri due tre padiglioni. Siamo in quello verde. Il viale principale viene bloccato dalla parata della banda militare dell’Arabia Saudita. Vengono distribuite bandierine, c’è un cordone di polizia. L’ingresso del padiglione è abbellito dalle bandiere verdi. Ormai è quasi ora del tramonto. Finiamo nel petalo blu, dove per ultimo ci vediamo la foresta rinfrescante di Singapore e il tramonto dal suo terrazzo.
Bello, tutto bello, mestamente mi porto alla fermata della metropolitana, dico addio al robottino. Il cielo si incendia di rosso. Mi offre uno spettacolo stupendo. Grazie per gli effetti speciali, sono commosso…
E infine alle otto, dopo cena, partiamo con la marcia funebre per ritirare il referto del tampone. Sono agitato. Se non posso partire, se per sfiga fossi positivo? Già mi vedevo tradotto in qualche segreta di Dubai, chiuso come appestato. Mi preoccupava per lo più mia madre. Davvero…
Dopo le mila fermate della rossa, arriviamo nel piazzale dell’ospedale. C’è ancora tantissima gente, c’è ancora quello che grida come se fosse una mancata Vanna Marchi. Non trovo il gatto. Stringo gli orifizi, sono in apnea. Consegnano in un secondo il referto di Mater. Il mio, il tizio mi guarda, digita, riguarda lo schermo del computer, mi dice un momento. Io già vedo la ghigliottina del Covid sul collo, mi scendono mocci interi dal naso, ecco lo sapevo. Quindici giorni a Dubai senza poter uscire. Che sfiga… Invece, aveva digitato male il nome. Un liberatorio fancu… interpretato male da Mater che inizia a piangere. Ma sei scema? Le dico… e via per la strada del ritorno… Domani si torna, se non cade l’aereo.
A me capita un ragazzotto che ha la grazia di uno che tiene in mano una stecca da bigliardo. Mi infila il tampone senza avvisarmi, senza darmi il tempo di abbassarmi completamente la mascherina. Ed ecco che sono stato tamponato. Usciamo immediatamente. Facciamo pipì nei super mega lucidissimi cessi dell’ospedale e prendiamo finalmente la metro.