La luce delle sei è filtrata dalla finestra proprio dietro la mia testa e quell’unico raggio di sole si è infilato dritto dritto nel mio occhio. Contro voglia mi sono girato e faticosamente ho aperto la finestra. Una sciabolata di freddo è entrata proprio sul collo. Ok, dovevo per forza alzarmi. Piano piano. Silenzio di tomba da tutte le parti. Un cielo sereno. Finalmente vedevo la locanda di giorno, ritrovo di gente con lo spinello tra le dita che ammira lo stonehenge, riprodotto proprio nel giardino. Questa la mia impressione della locanda la sera prima.
Tempo di uscire, riconosco la mia Inghilterra, le colline verdi, la doppia striscia continua gialla per delimitare le zone di divieto di parcheggio, il simbolo del World Heritage dell’Unesco. Via, vado via lentamente. Per arrivare allo Stonehenge bisogna percorrere un rettangolo di tre chilometri per cinque. C’è un punto dove lo si vede benissimo e con la luce alle spalle è perfetta. Non c’è nessuno. Vorrei fermarmi e fare una foto ma dei cartelli enormi di divieto e di fermata scoraggiano anche il minimo pensiero trasgressivo. C’è il vuoto totale, lo spazio non manca per fare delle rientranze così da fare una foto veloce.
Nel 2004, si poteva accedere fino a due passi dalle pietre. No, non oso, mi fermo al parcheggio ufficiale che apre alle nove. Infastidito, ripercorro il rettangolo di strade, girando attorno per un’altra volta attorno al sito. Questa volta non mi concedo nemmeno il pensiero trasgressivo. No. Al diavolo Stonehenge. In fondo sono quattro sassi. È destino che non riesca a fotografarlo.
Altre urgenze impellenti mi chiamano. Devo affrontare i quasi trecento chilometri che mi separano dalla Cornovaglia. Parto definitivamente, bello convinto. La strada è liscia, poche curve, colline ondulate. Due tronconi. Il primo da Stonehenge a Exeter e il secondo da Exeter fino a Penzance. Mi libero la mente, non mi faccio distrarre dal paesaggio perché se inizio a fermarmi, non la smetto più. Dopo Exeter, mi concedo una sosta di mezz’ora per la colazione e la benzina in un autogrill di fortuna, che non sono come i nostri: questo era piccolissimo, un negozietto/bar e un campo enorme verdissimo con i tavolini. Sotto il cielo del Devonshire, mi sono scofanato due donughts e ho bevuto il cappuccino ustionante della Costa. Mi sarebbero bastati per tutto il giorno. Rinvigorito, faccio la seconda tratta, più scorrevole, tutta a due corsie. Traffico inesistente, pochi automobilisti tutti disciplinati. Mantengo la media costante dei 130. Mi chiedo come faccia l’Inghilterra ad essere così verde, così collinosa, così pulita e impeccabile. Dove li mettono i 70 milioni di abitanti? Durante la guida, stavo schiattando dal sonno perché era tutto così semplice e noiosamente ordinario. Ero sorpreso dalla mancanza di orpelli che in Italia sono una costante. La A1 tra Milano e Bologna è tutto un unico capannone. Qui, non una fabbrica, non un centro commerciale, certo ci sono, ma sono belli nascosti e mascherati. Tutte le volte che vengo nel Regno Unito mi sorprendo e continuo a guardarmi attorno.
Vedo lo stemma della Cornovaglia su un cartello stradale minuscolo come un francobollo. Manca poco. Gli ultimi 40 chilometri sono un po’ lenti per i lavori della doppia corsia ma a differenza nostra, nessun restringimento, nessuna coda, tutto regolare. A Marazion ci arrivo dai campi, dalla campagna. Mi sono fidato ciecamente del navigatore. Ho percorso gli ultimi 20 chilometri su una strada tortuosissima e strettissima. Il cielo blu rendeva bello tutto, ogni cosa.
Metto giù le valigie, tempo di andare in bagno, che in un attimo sono fuori e mi dirigo nel paesello di Mariazon, villaggio di pescatori, una bomboniera, tutto perfetto. In fondo il Mount Saint’s Michael. Non smetto di guardarmi attorno. Arrivo alla spiaggia. Una ragazza carina, bionda, mi chiede di fare il biglietto. Sì, lo facciamo lì, sulla spiaggia. Un telefono, la connessione internet, un qr code, la Visa, l’autorizzazione della San Paolo e via… Come a Como, proprio, uguale, paroparo. La bionda mi chiede se sono membro del National Trust. La sua voce gutturale arriva direttamente dalla trachea. La guardo per capire come possa parlare in quel modo. Le rispondo che ho la tessera del Fai, l’Italian Trust. Non capisce la battuta. Mi guarda in cagnesco. Da un momento all’altro credo che si metta ad abbaiare. Salgo velocemente sulla barchetta e arrivo all’isolotto, meno iconico dell’omonimo bretone ma con molto più fascino. Il castello, pochissime case, e tanto verde, che circonda completamente l’isola.
E arrivo in questo paradiso, dove il tempo si è fermato, dove il verde e l’azzurro si mescolano. Gabbiani, una quantità spropositata di gabbiani. Faccio il giro veloce dentro il castello, mi soffermo davanti agli stemmi. Dopo un’ora, la natura mi richiama in modo prepotente, rotolo giù dalla montagnucola fino al porto. La bassa marea inesorabilmente scopre aree sempre più ampie di battigia. Mi soffermo nel quadrilatero del porto. Le imbarcazioni sono appoggiate direttamente sulla rena. Decido di tornare sulla terraferma. La stradina incomincia percepirsi in modo più evidente. Se aspettassi ancora un’altra ora, la attraverserei in tutta sicurezza ma sono incredibilmente attratto dal camminare coi piedi completamente immersi nell’acqua. Mi tolgo le scarpe, le calze e mi incammino lentamente. A un certo punto sono proprio in mezzo al mare. Non demordo. Proseguo. Una sensazione unica tra il cielo e il mare. Sentivo il ruvido dei lastroni di pietra e lo sciabordio lieve dell’acqua. Una sensazione impagabile. Ogni tanto mi giravo a guardare la montagna di San Michele. Era tutto perfetto. Certo, non camminavo sulla spiaggia dei Caraibi, ma era bellissimo sentire il freddo dell’acqua e l’odore pungente delle alghe.
E così mi sono lasciato andare in una lunga camminata nella baia, baciata dal sole. Le barche incagliate sulla sabbia, i cani correvano veloci, liberi senza guinzaglio, impazziti dalla gioia. E non avrei voluto per nessun momento andarmene via da lì. Solamente perché dovevo prendere dell’acqua e fare la spesa, altrimenti mi sarei seduto e non mi sarei più rialzato. Prendo l’auto mi porto a Penzance, enorme da lontano ma che si consuma praticamente dopo due stradette. La mia intenzione è di entrare alla Ipercoop di Penzance: è chiusa e domani pure. Incomincio ad agitarmi. Dopo un percorso a piedi, di almeno due chilometri, in piena isola pedonale, arrivo al Tesco e compro le mie schifezzine che mi serviranno per domani, giorno di lutto nazionale quando, ovviamente, ogni attività commerciale, e non solo, si ferma…