Godland – nella terra di Dio

L’altro ieri sono andato a Monza per vedere questo film. A dire il vero, lo avevano dato anche a Como ma non so per quale motivo l’avevo schifato. Dopo aver visto per caso il trailer, mi sono incuriosito e il desiderio di vederlo aveva preso il sopravvento su ogni cosa.

Ambientato in Islanda alla fine del 1800, quando questa terra era ancora sotto il regno di Danimarca, un prete missionario viene spedito nella terra remota, notoriamente ospitalissima, per costruire una chiesa e convertire gli abitanti.

Un film monumentale, che ti annienta, che ti inchioda per tutto il tempo sulla tua poltroncina, facendoti mancare il respiro. E sai sin dall’inizio che non andrà bene per nessuno. Il prete parte arrivando nella parte più orientale dell’isola, quella più aspra, più isolata… Approdano sulla costa col carico lasciato sulla spiaggia sotto la pioggia torrenziale. L’umidità ti entra dentro, si sentono le gocce che bagnano anche l’anima.

E inizia il viaggio silenzioso, sulla groppa di cavallini trasformati in muli. La comitiva avanza, il dialogo è ridotto ai minimi termini. Gli islandesi non parlano danese, anche se lo capiscono, il traduttore non fa nulla di più che tradurre quei mugugni e dialoghi. Non ci sono legami, non si sa nulla sulla psicologia dei personaggi. Il prete cerca di fare delle foto, con una macchina fotografica e delle lastre di vetro su cui si formano le immagini attraverso la polvere d’argento.

Si capisce che la natura fin da subito prende il sopravvento, la terribile bellezza spezza non solo l’anima ma anche la fede. Si perdono le storie dei personaggi nelle piogge, tra le gocce delle cascate, qualcuno muore, il prete rischia di brutto ma in qualche modo miracolosamente riesce ad arrivare nel luogo prescelto.

Il film non allenta la presa, la pesantezza rimane come zavorra che si trascina per tutto il tempo. Una sola volta prega il prete, al lume di candela sotto la tenda, chiedendo il miracolo, sperando di riuscire a sopravvivere in questo mondo scivoloso. Ma nella Terra di Dio è Dio stesso, non quello misericordioso e clemente della regione cattolica, il centro dell’amore e della fede, che si palesa e non c’è bisogno della fede o della croce. È un Dio impietoso, inclemente, lontanissimo dal calore che un cristiano cerca. È un Dio implacabile, inesorabile, “almighty”, pesante. La vita umana è fragile e si disintegra con uno sbuffo, con una spinta… Insomma, non c’è redenzione, non c’è perdono seppure nella consapevolezza delle proprie debolezze e dei propri peccati.

E alla fine rimani disorientato, ti guardi attorno, non sai se quello appena visto è un documentario del National Geographic o un tentativo venuto male di promozione dell’Islanda da parte dell’ufficio del turismo. Perché eticamente è inaccettabile, è moralmente squallido ma la morale qui affonda nel muschio. Non ci può attaccare a qualche appiglio perché non ve ne sono, tutto è disintegrato e ritorna allo stato primigenio naturale, ritorna a Dio. Il film rimane ancorato ancora a un vecchio testamento primordiale, dove il Cristo non è riuscito ad approdare perché ancora non nato oppure morto durante il periglioso cammino (che tra l’altro poteva essere evitato perché il gruppetto poteva approdare in posto molto più vicino.

Si poteva rimanere nella Danimarca, dove la maggior parte delle persone aveva lasciato la casa e gli affetti famigliari e si chiedeva ancora perché loro dovevano vivere in un posto tanto inospitale quanto remoto… Il padre soccombe e non riesce neanche a celebrare una messa nella chiesa finalmente eretta con travi di legno, elemento estraneo perché in Islanda non crescono alberi. E muore senza una benedizione, senza aver scontato i propri peccati, senza aver palesato un sentimento, uno che uno, lontano dalla chiesa, dalla parola di Dio, dal suo regno, dal buio della sua camera oscura.

Me ne uscito nel freddo della serata ma minimamente e lontanamente paragonabile al freddo provato in quelle due ore di film.


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