Ascoltando l’Ultima neve di Primavera

primavera
Pensavo a lei e la sua immagine non scompariva dai miei pensieri. Anche nelle infinite gocce di una tediosa pioggia, lei era presente con il suo mite sorriso.
Cercavo di distrarmi pensando agli esami, ma non ci riuscivo. La pioggia che colpiva violentemente il vetro mi portava il suo volto.
Mi allontanai dalla finestra e passeggiai per la stanza.
Che cosa potevo fare?
Accesi una sigaretta. La mia apprensione scomparve dopo qualche respiro. Il sapore amarognolo del fumo che mi accarezzava il volto, mi tranquillizzò.
Non potevo però sopportare quel dannato scroscio che si percepiva fuori dalla stanza!
Dannazione!
Gettai la sigaretta nel posacenere, senza spegnerla e mi sedetti al pianoforte.
Iniziai a suonare “L’ultima neve di primavera”. La musica mi prese. Mi lasciai trasportare da quel suono nitido che usciva con veemenza dai tasti bianchi e neri, sotto la pressione delle dita.
La suggestione della musica era troppo forte e copriva il mormorio della pioggia. Eppure l’immagine di lei fluttuava con voluttà, seguendo quelle note.
In poco tempo la stanza perdette i contorni, le tende sparirono e le due colonne di marmo si dissolsero.
Al Bordoni…, un giorno, lei si era avvicinata e mi aveva sorriso…
Si! Sorrideva proprio a me. Io provavi un vago senso di felicità. Nel suo volto si leggevano i segni di una lunga solitudine, ma vi vedevo anche molto coraggio. Le risposi abbassando gli occhi e subito suonò la campanella. Dovevo tornare in classe. Quale dispiacere provai lasciarla nel corridoio tra i ragazzi invadenti! Rimasi ancora per pochi attimi a guardarla. Fui catturato da una forza strana. Di nuovo fui distolto dal richiamo della lezione. Mi voltai e raggiunsi i compagni per ultimo. Così nei giorni seguenti la ritrovavo nello stesso posto, all’intervallo. Non sapevo chi fosse, forse veniva dal Parini. E lei continuava tacitamente a scrutarmi con la sua impenetrabile insistenza, mi soggiogava come in un incantesimo. Non potevo distogliere lo sguardo da lei. Quando parlavo con gli amici al bar, mi bloccava con la sua presenza. Se volgevo dei passi verso di lei, mi mancavano le forze e iniziavo a tremare. La dolcezza che scaturiva da tutto il suo corpo, mi commuoveva e quasi cadevo in ginocchio davanti a lei. La magia bruscamente si dileguava non appena il suono della campanella invadeva i corridoi. Tutte le volte ero costretto a lasciarla da sola con quella superba bellezza. Soltanto una volta riuscii a ribellarmi a quel maledetto squillo. Quando si accorse che avevo infranto le regole stabilite dal tempo, si voltò improvvisamente. I capelli lunghi e mossi le coprirono il volto. Prese a correre verso l’uscita, ma non doveva sfuggirmi. Ero ormai riuscito a liberarmi dalla costrizione di quell’assurda atmosfera e non volevo lasciarla. Potevo finalmente sapere chi era. La inseguii mentre stava varcando il portone che dava sul corso. La vidi scomparire tra le macchine e la gente. Si era gettata nella confusione della strada affollata. Smarrito, mi fermai istintivamente in mezzo alla strada e mi interrogavo dove potesse essere andata. Penetrai con la vista quella massa che si attardava tra le vetrine del centro. Due colpi di clacson, mi fecero trasalire. Mi trovavo nel corso e non mi accorsi che ostacolavo il passaggio delle macchine, poche invero. Mi voltai e vidi la bella facciata del Bordoni. Amaramente, con rabbia, mi avvicinai alla scuola. Ero deluso! Una tristezza sottile si impadronì dei miei pensieri. Come poteva andarsene, lasciarmi senza dire niente, senza un saluto. Ma chi era? Di che cosa aveva paura? Non tornai in classe però, proseguii oltre il corso fino al duomo. Mentre mi allontanavo, perdendomi nella città più antica, pensavo di non tornare a casa. Indugiavo tra le arcate secolari e lentamente mi dirigevo verso il fiume. La nebbia sbiadiva i contorni delle case di mattoni screpolati e si adagiava dolcemente sui tetti. Non c’era nessuno d’intorno e il silenzio regnante accresceva quella placida armonia. Ero immerso nei miei pensieri, così passeggiai per le stradine strette, piene di sassi. Non avevo concluso niente, oltretutto non avevo neanche seguito le lezioni. Non ero nella migliore disposizione d’animo e volevo rimanere con me stesso. Percepivo poco lontano il rumore cupo del fiume che scorreva inesorabile. Fui subito attratto da quella grande presenza, mai stanca di vedere sempre la stessa città, le solite rive, gli stessi volti. Il fiume con la sua voce mesta era per me un irresistibile richiamo. Mi ero allontanato di molto dal corso, anche se i miei compagni o i professori, mi aspettavano, avevo già deciso che per quella giornata non sarei tornato più in classe. Mi sarei presentato il giorno dopo. Con quell’irremovibile proposito, mi avvicinai al ponte. Ancora poche vie e mi trovai sul lungo fiume. Le case scomparvero e la nebbia si presentò come un muro bianco. Raggiunsi l’antico ponte. Il fiume sotto a quelle cinque arcate splendide scorreva con un continuo moto lento e non arrestava mai il suo corso. Osservai la corrente e i vortici che increspavano la superficie grigia e mentre la guardavo, provavo un senso di profonda calma. L’acqua lambiva le rive impercettibilmente. I miei occhi si posarono sulle barche ormeggiate che ondeggiavano su quell’acqua implacabile e agitata. Come era piacevole attardarsi in quei posti! Il mio corpo mi abbandonò e mi sentii leggero. Quando ero sul ponte, presi a correre trattenendo il respiro. La nebbia mi urtava e ostacolava il mio movimento. Raggiunsi la riva e mi inginocchiai. Allungai la mano. L’acqua bagnò la mia pelle e mi fece rabbrividire. Sentivo la forza del fiume che entrava lentamente dentro al mio corpo. Mi caricava e mi sentivo più forte. Trattenni nel pugno un po’ d’acqua che si disperse poco dopo. Non riuscivo ad afferrare quella potenza che scorreva nervosamente e passava senza che io me ne accorgessi. Levai la mano e mi fermai ad osservarla mentre scivolavano le gocce per scomparire e confondersi nella corrente. Intanto aspettavo che si asciugasse e la lasciavo scivolare sulla mia fronte, sulle mie guance. Assaporavo la freschezza, inumidendo le labbra. Dio mio! Perché se ne era andata? Credevo in quegli istanti di devota commozione che il fiume me la portasse. Forse, se avessi aspettato, l’avrei ritrovata, lei sarebbe comparsa tra i tumulti cupi e incessanti del fiume. Aspettai ancora per molto. Nell’attesa passeggiai lungo le rive, nel verde e nel fruscio delle canne. Salii su una barca, mi lasciai cullare dalle infime onde. La nebbia continuava a posarsi stancamente come forza atavica che costringeva nella solitudine senza dimensione. Avrei afferrato qualsiasi immagine che la mente mi avrebbe offerto, se non ci fosse stata quella dannata angoscia che entrava senza far rumore nella parte più recondita del mio animo. Sentivo che tutti i miei sentimenti lottavano disperatamente per riconquistare la serenità e la tranquillità che quella ragazza aveva portato via da alcuni giorni. Mi sforzavo di tenere gli occhi chiusi, ma ad ogni rumore, anche minimo, venivo ricondotto alla realtà e mi guardavo attorno. In lontananza vedevo il vecchio ponte che era avvolto completamente e rimaneva con la sua impassibile fermezza ancorato alla cornice incerta del tempo. Non riuscivo a rincorrere le figuri labili del mio pensiero. Cercavo di fermare delle sensazioni effimere. Respirando l’aria impalpabile e pungente, mi sentivo piccolo, incapace di sopportare un malessere che mi opprimeva. Provavo un certo disagio: era la sua mancanza, la stessa che provai nei giorni seguenti quando l’aspettavo e lei non si faceva sentire.
Passarono molti giorni senza il suo sguardo. Attendevo con impazienza e ogni giorno speravo che lei potesse comparire di nuovo in tutto quel mistero che la rendeva irresistibilmente affascinante. Nei corridoi guardavo cercando tra i volti dei ragazzi, quello suo. Ma vedevo soltanto occhi spauriti, protetti da un resistente egoismo. Non scorgevo neppure l’ombra così tanto cara. La disperazione cresceva ad ogni passo che facevo in quella scuola. Urtavo i ragazzi e non me ne rendevo conto. Perché non c’era? Mi aveva abbandonato solamente perché avevo infranto le regole del gioco? Non sapevo rispondere in quei momenti di agitazione. Non riuscivo a mantenere la calma, un tremore mi coglieva prepotentemente, la pazzia si insinuava segretamente. La nausea si presentava anche tra gli scherzi dei compagni. Spesso in classe scarabocchiavo fogli colorati con parole fino allora trattenute, per colmare il vuoto certo che mi si parava davanti. Mentre la stilografica oscillava gettando l’ombra del pennino su quei colori ingenui, non c’erano professori, né compagni. Era soltanto la mia immagine di fronte alla sua figura labile, mai nitida. Le parole uscivano con arroganza e vigoria. Non riuscivo a trattenerle. E non pensavo che a lei…
Ritrovavo la necessità di scrivere come un impulso e mai la penna mi abbandonava, sempre fedele seguendo la mia mano. Raccoglievo i fogli e li dividevo giorno per giorno. Li appuntavo sul diario cercando le pagine libere. Testimoniavo la precarietà del mio animo. Seguivo un’immagine, una ragazza e non avevo neanche la certezza che esistesse. Perché tutte quelle parole lungo un susseguirsi di fogli? Perché dovevo scivolare lentamente in una dannazione che non mi lasciava respirare? Ma dov’era? Perché non si faceva trovare a scuola? Domandai sommessamente agli amici del bar se per caso l’avessero vista. Nessuno mi diede risposte valide e alcuni si prendevano gioco di me. Era possibile che mi fossi nutrito fino allora, di una semplice illusione del cuore? Mi sembrava ogni cosa così strana! Lo stesso Bordoni, compagno intimo che possedeva ormai cinque anni della mia vita, si presentava estraneo ed ostile.
Così, mentre passavano i giorni, accresceva in me un timore sottile, quando mi avvicinavo al portone, proprio quello da dove era fuggita e scomparsa. Non prendevo neanche più il bus. Alla mattina preferivo lunghe passeggiate e percorrevo interamente il corso. Passavo davanti ai negozi ancora chiusi e gente stranita. Volevo cogliere il fresco umido intriso di nebbia, nella gentilezza di certe mattine. Respiravo a pieni polmoni e cercavo di allontanare l’agitazione che si consolidava più mi avvicinavo alla scuola. Cercavo di reprimere ogni sentimento angusto, mi sforzavo di osservare i cartelloni dei cinema, le donne che lucidavano le vetrine, i bus rumorosi che disturbavano il quieto ordine della città. Raggiungevo un’inaspettata calma e affrontavo lo sguardo di tutti. Ma quando entravo tra le pareti bianche, perdevo quella vitalità e riverso sul banco, mi lasciavo trasportare dai fantastici pensieri che occupavano la mia mente. Non c’era più realtà che mi distraeva.
La sofferenza durò un mese, fino a quando trovai, durante quei momenti impossibili, sotto al banco, una busta. Precipitai nella realtà. Mi girai e vidi i compagni che leggevano mentre il professore spiegava. Non capivo che cosa dicesse, ma subito afferrai la busta tremando. Forse nella fantasia si era aperto uno squarcio e la lettera era tutto quello che rimaneva di un assurdo sogno. La portai alle labbra. Mi colse un infinito piacere. Così la deposi tra le pagine del diario e seguii la lezione. Non dovevo più rincorrere delle illusioni. Lei era vicina e si presentava con una candida busta. Potevo finalmente vivere. Ogni cosa riprendeva colore. Non vedevo più ombre. I ragazzi erano attenti e li riconoscevo tutti; il banco dove appoggiavo i miei libri era ancora verde; la luce della finestra entrava fortemente e illuminava ogni cosa; era tutto chiaro. Quando fu finita la lezione, uscii fuori ansimante con la lettera in tasca, arrivai alla piccola piazza di fronte al conservatorio. Sotto ad alberi quasi spogli che perdevano impercettibilmente le foglie, mi fermai. Feci un respiro più lungo e ascoltai alcune note che filtravano dalle mura del conservatorio. Stavano suonando “L’ultima neve di primavera”. Presi in mano la busta; non c’era scritto niente di fuori. L’aprii con delicatezza, spiegai il foglio e una scrittura piccola riempiva la carta.
«Caro Stefano, incontrai i tuoi occhi e fui legata a te.
Credimi ogni volta che mi trovavo al Bordoni, non riuscivo ad allontanarmi e ad andarmene.
Se ti confesso queste parole è solamente per soddisfare un irresistibile richiamo a cui non riesco a sottrarmi.
Non pensavo che da un incontro si potessero scatenare tempeste di sentimenti.
Alla sera di quel giorno, quando tornai a casa, fui molto turbata. Credevo che tu fossi l’unica persona della mia vita che avrei potuto amare incondizionatamente.
Non volevo perderti, così levai una preghiera. L’avevi ascoltata prontamente. Avevo percepito il tuo sentimento chiaro e sincero.
Era andata così bene ai primi giorni.
C’era solamente l’incontro e niente più. Sparivamo poco dopo.
E il mio cuore si sarebbe saziato della tua presenza e tu, mio caro, avresti continuato a vedermi tacitamente, non con parole, né con segni.
Ci saremmo visti per sempre così. Avrei di nuovo pianto di gioia nel mio silenzio ad ogni nostra separazione e tu avresti sentito i miei lamenti soffocati. Sarebbe andata per sempre così, se non mi fossi incontro.
Hai voluto catturarmi, distruggendo l’intesa che si era creata in un tempo cadenzato da una campanella troppo insolente.
Sono riuscita a fuggire nel mio mondo che non vorrò svelarti e ce l’ho fatta.
Accettare il tuo invito, sarebbe stata una pazzia! Significava dannarsi, cadere e precipitare nell’inferno più tenebroso. Ma so ormai di essere inciampata e di essermi fatta male. Non riesco a comandare le dita che si lasciano scappare queste parole. Non riesco a farle zittire.
Sentirai la mia voce attraverso questi segni che sporcano il foglio. Non sarà una voce assordante; non sarà neanche un lamento sommesso.
Sono davanti a te con tutta la dolcezza che possiedo. So che non strapperai questa lettera e la conserverai gelosamente nel tuo cuore.
Ma ti prego, per Dio: lasciami!
Sono dannata perché ho posato i miei occhi in quelli tuoi. Non sai quale dolore provo, mentre scrivo questa supplica straziante.
E’ troppo penoso star così lontano da te. Mi costa fatica, trattenermi e non correre da te in questo momento, mentre fuori è buio e i rumori sono minimi.
Sto perdendo l’anima e lotto dannatamente per non essere travolta da questo stillicidio di secondi, di minuti, di ore che sembrano aver perso il tempo.
Ti prego, dammi la possibilità di risollevarmi da questo senso di inquietudine. Voglio respirare di nuovo e vorrei farlo tanto con te.
Credimi!
Non mi è concessa questa gioia. Resterà un’immagine, un sogno, il sapore di una magia che ci ha uniti in un gioco assurdo.
Ti ricorderò con quel volto incontrato per la prima volta. Ricorderò l’amore scaturito, un amore che non si spegnerà, un amore che avevo perso nelle anfrattuosità della storia.
Ti sarò sempre vicina e non ti scorderò. Adesso ti lascio questo foglio e tutte queste parole confuse: ma non ti abbandonerò.
Forse non ci vedremo per un lungo periodo di tempo o forse mai. Ma non ti negherò il mio amore…»
Rimasi per alcuni istanti a guardare quella lettera. Ammiravo fissamente il foglio e pensavo che tra un po’ si sarebbe fatta vedere. La possedevo stringendola tra le mani. Il suo volto compariva offuscato tra le righe che erano vicine tra di loro. La musica si era dispersa nell’aria. Un sole tenue si era affacciato su quella piazza. Si sentivano delle voci di ragazzi in lontananza. Guardai le foglie ormai gialle che coprivano tutte le aiuole. Non avevo più la forza di reagire. La stanchezza mi prese e mi fece sedere su una panchina. Tremavo perché faceva freddo. Anche se il sole cercava di disperdere quell’inverno che avanzava timidamente, l’umidità si era impadronita della città. Ma ancor di più sentivo la sua mancanza ed era peggio di una tortura. Lo sgomento era prepotente e non riuscivo a distinguere le voci spensierate e gioiose che provenivano dalla via di fronte. Facevo fatica a respirare. La lettera era trattenuta saldamente da un cocciuto egoismo e la stringevo nei pugni con tenacia. Il foglio si stava sgualcendo e non me ne rendevo conto. Perché non poteva più incontrarmi? Perché mi lasciava un pezzo della sua anima per versarvi tutte le lacrime di un amore soffocato nell’intimità di pochi minuti? Non avrebbe dovuto scrivere la lettera! Se davvero aveva deciso di non incontrarmi più, perché ammettere la sofferenza di un inganno? Certamente si era sbagliata! Non poteva che essere così! Perché allora alzando lo sguardo, non la vedevo e nessun altro? Credevo di essermi smarrito in un vicolo buio, senza uscita. Lei mi conduceva nella sua pazzia che non voleva ammettere. La dovevo abbandonare sul serio. Avrei di nuovo continuato a vivere senza di lei? Dovevo infrangere l’oscurità. Sarebbe rimasta una lettera, preziosa, disperata. E da quella avrei continuato a sentire il suo respiro, la sua essenza. Non dovevo lasciarmi prendere dalla pazzia. Non avrei dovuto cedere alle insidie del cuore. Mi sarei lasciato andare nell’inverno e poi ogni cosa sarebbe passata come il fiume che non ritorna più alla stessa città. Sentivo il freddo penetrare dolcemente e mi faceva rabbrividire e nel brivido c’era anche del piacere: il piacere così caro di lei. Rispolverai la preghiera che lei aveva levato nei corridoi della scuola. Era una specie di suono, una musica dolce che proveniva da un disordine primordiale e si distingueva sopra ad ogni altro rumore. La coglievo nella sua purezza e mi rendeva più sicuro. L’inquietudine e il vuoto di lei svanirono e rimase soltanto l’umidità dell’aria. Piegai con cura il foglio e lo chiusi dentro alla busta. Ecco non avevo più timore. Rimaneva l’eco lontana di una melodia che mi dava coraggio. Così con quella sicurezza superai l’inverno. Lei spariva giorno dopo giorno e ripresi a vivere senza di lei. Un sabato sera alla fine di Gennaio qualcuno bussò alla porta. Non potevano essere gli amici, li avevo lasciati due ore prima al solito bar sul corso. Non aspettavo nessuno. Quando aprii, una gioia improvvisa, un brivido impercettibile, un profumo che conoscevo mi colpirono. Era lei con quegli occhi grandi e impauriti, con quei capelli lunghi. Fece per abbracciarmi. La respinsi. Era un sogno. Credevo di averla dimenticata per sempre e quando meno me l’aspettavo, eccola ricomparire di nuovo con quel fascino misterioso. La feci entrare. Lei avanzò di qualche passo, incerto e raggiunse la sala. Ancora incredulo, rimasi fermo per poco. La seguii con gli occhi. Perché di nuovo compariva? Che cosa voleva? Intanto chiusi la porta. Quella volta non doveva scomparire. Svelavo il mistero di quell’anima che non aveva pace. Ma non ci riuscivo. Davanti a lei, quella sera, mi sentivo impotente. Mi faceva pena, vederla tra i cuscini della poltrona, inespressiva e senza vigore. Le parlai, ma rimaneva in silenzio. Passeggiavo e intanto la guardavo. Era bella. Non mi stupivo più oramai di scorgere in ogni momento quella sensualità che veniva sprigionata dal suo corpo. Le offrii da bere ma non bevve. Non riuscivo a scalfire quel muro tenace dietro al quale si era nascosta. Così cresceva in me l’esigenza sempre più grande di sapere chi fosse, di possederla non soltanto in un foglio di carta. Le rivolsi alcune domande, ma non mi rispose. Che cosa potevo fare per farla uscire da quella freddezza, da quella abulia che l’avvolgeva? Sembrava una statua di cera e il candore della sua pelle risaltava tra i capelli scuri e mossi. Mi avvicinai e la guardai con maggior attenzione. I suoi occhi erano sbarrati. Mi alzai e mi affacciai alla finestra. Era buio e non c’era più nessuna macchina. Da dove poteva essere venuta? Mi girai e sorseggiai la bibita da una lattina che era adagiata su un tavolino vicino a lei. Molti dubbi mi passarono per la mente. Ritornavo indietro nei ricordi, con la memoria fino a quei giorni, quando la incontrai. Come poteva conoscermi? Quando aveva messo la lettera sotto al mio banco? Perché si trovava al Bordoni? E mi disperavo di fronte a lei. Se almeno avesse detto una parola, se avesse aperto un piccolo spiraglio, sarei riuscito a disseccare il silenzio che ci divideva. Ma era protetta. Era forte lei! Mi gettai con rabbia sul pianoforte e scaricai tutta la tensione, improvvisando alcune note. La musica si alzò e invase la sala. Non avevo mai suonato così e non riuscivo a controllare le mie mani che si agitavano freneticamente. In quei momenti la musica l’accarezzò, fece sciogliere il gelo che immobilizzava quella creatura. Lentamente iniziò a singhiozzare. Ma non mi accorsi se non alla fine, quando mi sentii infinitamente stanco. Mi voltai improvvisamente e una lacrima le bagnava il volto. Mi avvicinai afferrandole una mano. Scoppiò in lacrime. Finalmente l’avevo toccata. Esisteva per davvero. Le passai una mano tra i capelli e sfiorandole le guance, levai quelle lacrime che sciupavano il suo volto. Pianse fortemente e mi struggevo a vederla così piegata dal dolore. Soffiai dolcemente sopra i suoi occhi per asciugare la pelle. Ma non riuscii a farla smettere. Adesso era vulnerabile e non era più quella che avevo conosciuta. Vedevo un’altra ragazza, ancor più bella che si gettava tra le mie braccia. Potevo sentire il suo corpo accanto al mio e percepivo tutti i suoi respiri inquieti a volte soffocati. Le promettevo che non l’avrei mai più lasciata se quello fosse stato il suo desiderio. Sentivo di amarla e le sussurravo parole senza senso. Capivo nel silenzio di quella notte che ogni mistero si era frantumato. Non mi importava sapere chi fosse e perché era venuta in casa mia. Ormai l’avevo stretta e non l’avrei più lasciata. Il profumo di lei mi inebriava e sprofondavo in un limbo senza dimensioni. Nella confusione di sentimenti la baciai. Anche lei fece lo stesso. Ero al limite di una disperazione ancora non scomparsa. Solo allora smise di piangere. Infine rimanendo in silenzio la guardai e lei mi sorrise. Poco dopo presi la lattina e feci alcuni sorsi. Nel frattempo lei si era alzata e si stava spogliando. Assieme a lei trascorsi quella notte. E l’indomani quando mi svegliai, lei non c’era più. Trovai una piccola fotografia con il suo volto. Di nuovo era sparita. Ma non mi preoccupai in quella mattina e non mi domandai più niente. Era stata la consacrazione finale di una amore impossibile. Percepii anche il suo profumo tra le lenzuola. Presi la fotografia e riuscii a distinguere un nome che era stato scritto con un pennarello. Socchiusi gli occhi e scivolai in un dormiveglia e vagheggiavo nell’indefinito. Mi ero trovato in uno stato di torpore e di serenità. Mi ero messo a pensare alla notte trascorsa con la convinzione che avrei tenuto nel cuore un dolce ricordo…
Uno squillo mi svegliò da quel dormiveglia. Mi ritrovai tra i cuscini della poltrona. Dio mio! Mi ero assopito subito dopo aver suonato “L’ultima neve di primavera”. La pioggia si fece sentire con quella struggente monotonia. Ero ritornato indietro nel tempo perché la noia si era impadronita e la tristezza aveva preso il sopravvento. Avevo riaperto il diario di due anni addietro. Tra quelle pagine avevo ritrovato tutti i fogliettini che avevo scritto nel mio silenzioso delirio. Li avevo riletti e tra le parole ritornò lei con la sua fotografia. Guardai per terra. C’era il suo volto catturato in quell’istantanea. La raccolsi. Il ricordo per lei non era ancora diminuito e mi ridava immagini con la stessa intensità di quei momenti. L’amavo ancora. Non sarebbe mai scomparsa. Entrarono alcuni ragazzi. Mi ero dimenticato che dovevo andare ad una festa in via Rezia. Gli amici iniziarono a ridere e a scherzare. Mi nascosi per poco tempo in camera e mi cambiai. Mi avvicinai al letto e posai una mano sul cuscino dove lei aveva appoggiato i suoi capelli. Chiusi gli occhi per un istante. Lasciai cadere la fotografia sul letto. Così uscii tra le voci rumorose e spensierate. Salii su una macchina. La pioggia non aveva intenzione di smettere. Ma non mi intristiva più ormai. Ero in compagnia e dimenticavo la noia. Era una sera come tutte le altre. Ci fermammo al bar a bere. Presi una Chimay cercando di allontanare la tristezza che mi aveva colto. Iniziai a ridere con tutti gli altri. Dopo essere usciti dal bar, infine raggiungemmo la via Rezia dopo aver oltrepassato la stazione e viale Libertà. Mi sentivo bene. C’era molta gente di fronte alla discoteca che si trovava in fondo alla via. Le luci colorate dipingevano l’aria colorata. Entrai dopo aver aspettato nel disordine generale. Non pensavo a niente. Dentro di me c’era un ricordo ancestrale. Iniziai a ballare sulla pista. Faceva sempre più caldo. Mi confondevo con quella massa agitata. I video venivano proiettati su diversi schermi. C’era un’agitazione frenetica, un qualcosa di convulso, come una segreta follia che si sprigionava da tutti. Consumavo il mio respiro, le energie accumulate nella settimana per un divertimento comune. Era diventato un vizio. Alla fine mi distaccai da tutti quei ragazzi e raggiunsi il bar col fiatone e in quell’atmosfera di mille colori, mentre provavo un caldo insopportabile, scorsi lei, seduta su una poltrona. Stava baciando un ragazzo. Prevalse una rabbia furiosa. Mi sarei gettato e avrei picchiato a sangue quel giovane che osava rovinare il mio dolce ricordo. L’avrei presa per mano e l’avrei portata lontano. Assieme, da soli, avremmo condiviso un’intera vita, se non mi avesse frenato quella profonda ammirazione che provavo per lei. Non era giusto né per me, né per lei, rovinare ogni cosa, solo per un ricordo troppo caro. Non dovevo distruggere la purezza, quel mistero che mi aveva distratto in un giorno di due anni addietro. Lei era lì per caso e scoprivo un po’ del suo mondo. Eppure lei mi aveva scritto che non voleva svelarmi il mistero. Trattenni il respiro, chiusi gli occhi e bagnai le labbra secche. Mi alzai. Uscii, facendomi largo. Una volta sulla strada iniziai a correre. Dovevo andarmene via, almeno per quella sera. Non si era accorta di niente; non avevo incrociato i suoi occhi; non era successo niente. Ma provai un grande dispiacere e le lacrime si confondevano con le gocce di pioggia che si adagiava sul mio corpo insensibilmente. Ogni tanto mi voltavo e mi illudevo che lei potesse seguirmi. Trovavo soltanto desolazione in quel groviglio di stradine. La pioggia cadeva imperterrita, rispecchiandosi nelle infinite pozzanghere. La luce tremula dei lampioni era rigata dalla moltitudine di goccioline. Ero contento di essere fuggito. Non potevo rovinare il ricordo. Amavo soltanto un’immagine. Se anche avessi saputo che fosse stata una prostituta, lei continuava ad essere mia con tutta quella purezza che le avevo costruito attorno. Magari era andata al Bordoni per un irrepetibile casualità. Nessun altro dubbio poteva intaccare il sogno. La pioggia era colpevole di quella confusione e lavava via ogni incertezza. Se l’avessi incontrata di nuovo, sarei fuggito ancora come dalla discoteca. Non era mai stata mia e capivo questa verità in quella città addormentata. Fradicio e completamente bagnato, coi capelli che mi coprivano gli occhi, mi addossai ad un lampione. Solitario in quell’immensità iniziai a sognare