La giornata di oggi comprendeva la colazione. Poco minuti prima delle 8 ci siamo trovati all’ingresso della sala: c’era la metà popolazione del Giappone e io, il solo italiano sfigato che va Yerevan. Alle otto precise ci siamo catapultati all’interno, sgomitando, facendoci largo per accaparrare qualcosa di commestibile prima che finisse tutto. Ed era tutta una rincorsa con la forchetta pronta ad infilzare la fetta di formaggio, il wusterl e i dolci. I piatti li lanciavano come frisbee, le vecchiarde spintonavano e sgambettavano, falli di mano. Ve la immaginate la giapponesità tutta bon-ton e arigato? Ecco, dimenticatela.

Dopo la cruenta lotta per bere una tazza di latte, mangiare una fetta di torta (le brioches non sanno cosa siano), mi sono precipitato di fuori. Il tempo lo stesso di ieri. Caldo, afoso e cielo completamente bianco. Volevo arrivare alla collina del genocidio ma era troppo lontana, al di là del fiume, dietro lo stadio, parzialmente coperto dalla mastodontica fabbrica del brandy armeno Ararat.

Ho respirato a pieni polmoni lo smog di Yerevan, ho attraversato le corsie dei viali di Yerevan, grazie all’aiuto della polizia, prima di ritrovarmi stesso sotto qualche macchina e sono arrivato alla prima collina. Ho cercato di corrompere un taxista ultranovantenne, coi denti gialli ma era già impegnato per una famigliola.

Così ho rinunciato e me ne sono tornato, grondando di sudore, e respirando di nuovo la stessa aria. In albergo mi rifaccio una doccia per non dover puzzare troppo e alle undici mi trovo la Marianna. Dolce solare con un paio di occhiali scurissimi e capelli liscissimi. Risata contagiosa. E, particolare di non poco conto, molto faiga.

Usciamo con fatica dalla città, immettendoci nei viali orientali di Yerevan. La Gran Madre Armenia ci guardava minacciosa dall’alto della collina. Saliamo impercettibilmente, nel traffico della metropoli. Per fortuna sono pochi chilometri, una ventina in tutto. Tempo di uscire fisicamente dalla regione amministrativa di Yerevan per passare nella provincia dell’Ararat.

Prima tappa alla gola chiamata Synphony of Stones, un piccolo canyon, affollatissimo di turisti, le cui pareti verticali sono formate da queste colonne di basalto che sembrano le canne di un organo. Scendiamo giù. La guida saluta tutti e tutti le rivolgono un saluto e le sorridono. Non ho ancora visto un armeno salutare. Si intenerisce per ogni cosa, per i fiori, le rondinelle, i cavalli che portano in giro i turisti. E lei è contagiosa, distribuisce sorrisi che vengono ricambiati. Ovviamente a me non caga nessuno. Lei è bellissima e io, ormai un cesso.

Ritorniamo indietro e ci fermiamo in un posto ancor peggio turistico. Una signora prepara del pane carasau all’interno di un forno in cui c’è della lava. Insomma una piadineria nostrana dove la signora, freschissima di tinta del parrucchiere, impasta, stende il pane con manovre acrobatiche e lo adagia ad una parete del forno. Una pizzaiola molto abile. Mangiamo poi il rotolone dopo averlo riempito di erbette e formaggio. I gatti ci ronzano attorno ma sanno che non è per loro.

Al tempio Garni o del sole, un piccolissimo Partenone affacciato sul canyon, inizia a piovere. Ma in realtà sono solo quattro gocce, giusto per rinfrescarci. Bello, sarebbe stato ancor più bello se non ci fosse stata quell’orgia di persone che ad ogni colonna si facevano i selfie con la bocca protesa in avanti. Peccato per il tempo.

Infine ripartiamo per Gheghard, un tempio incastrato alla fine di una gola. Lungo la statale, c’è un leone arroccato su una collina simbolo di Ghegart. La Marianna apre la portiera, si lancia fuori, e inizia a salire, incurante del burrone e del sentiero sdrucciolevole. Mi tocca seguirla. Scende anche il driver, che probabilmente starà pregando in armeno per la nostra incolumità. Arriva su in alto, tutta felice. Mi dice che è la prima volta che sale fin lassù. Ah, bene! E come mai questa novità? Siamo da soli, non piove e c’è il medico. Grazie per la fiducia che riponi in me, ma se ruzzolo anch’io arriviamo direttamente ai piedi del monte Ararat. Arriviamo al piedistallo. Il leone ci guarda come a compatirci e a dirci che siamo matti. Scendiamo. Eccola la Marianna, l’aspettavo al varco. Io in poche falcate sono sulla strada. Invece la Marianna è in evidente difficoltà. Scende di culo, si aggrappa alle rocce. Interviene il driver, che in quanto ad agilità ce la contendiamo e la porta giù come un fuscello. E lei è tutta sorridente. Visto? La prima volta! Anche per me, le ho detto.

C’è il sole e il tempo è sereno e azzurro. Finalmente, ma durerà poco, tempo della visita al monastero, vedere una sposa e sentire una cantava all’interno con una voce angelica, che il tempo era già guasto. Marianna saluta tutti e mi presenta quell’uomo che ha scalato la montagna di fronte per posizionare una croce. E visto che ero medico perché non chiedermi un parere sulle sue emorroidi. Marianna era imbarazzatissima, e non la smetteva di ridere. Io non sapevo bene cosa rispondere alle emorroidi di un armeno che teneva in testa una corona di fiori. Ecco. La parte più interessante della giornata.

E poi ci siamo riportati in città. Avrei voluto vedere la spettacolare vista del Monte Ararat ma niente da fare visto che sono molto fortunato