Una giornata di riposo, o almeno con poco stress e movimento. Ieri sono crollato come una pera cotta sul letto alle 23 dopo essere rientrati dal giro di mezza Armenia. Così stamattina me la sono presa con calma, sono andato a fare colazione alle 9, ho prenotato il transfer per l’aeroporto per stanotte e poi ho passeggiato nei dintorni. Il sole era ancora accettabile, mi sono seduto su una delle bellissime panchine che si trovano ovunque e come un vecchietto ho aspettato che arrivassero le undici.
Marianna è venuta a prendermi e come ultimo giorno, ha deciso di portarmi a vedere due musei. Sinceramente avrei preferito svaccarmi sulle rive del lago qui vicino, ma come un buon scolaro, ho seguito la maestra.
Dopo un piccolo salto al Centro Culturale Italiano Armeno, poco fuori dall’albergo, siamo usciti fino alla prima periferia di Erevan. Abbiamo visto i due complessi monumentali e più sacri dell’Armenia, luogo dove vivono gli apostolicos della chiesa armena. Il primo Echmiadzin, una sorta di seminario gigantesco, tenuto in maniera immacolata, con delle distanze enormi. Già stare sotto il sole era un supplizio, soprattutto con la crapa scottata, non era il massimo.
Il secondo edificio è stata la chiesa di Saint Hrpsine, di questa sfigata che si è negata sia all’imperatore Diocleziano, sia al re Tridates che la martirizzò. Povera crista, cosa succede a non volerla dare… Così, con le chiese avevamo finito. Mancavano un po’ di cose da vedere.
Il primo il Matenadaran, un imponente edificio accanto alle cascate, da cui si domina la città. Un tempio dove si raccolgono manoscritti e i vangeli scritte in tutte le lingue del mondo. Un excursus interessantissimo, finalmente con una guida in italiano, una certa Anna, timidissima, ragazzina, che mi dava del lei e ogni volta mi giravo per capire a chi si stesse rivolgendo.
E poi ci siamo dati alla pazza gioia del cibo. Siamo andati a mangiare un untuossimo donught/fritellone che fanno a detta di Marianna solo a Erevan. Di essere buono era buono. Poi ho comprato una quantità industriale di dolciumi da portare a casa. Alle cinque siamo arrivati davanti al Museo della storia di Erevan ma era appena chiuso. Poco male, dopo cinque musei penso di aver dato nella mia lucidità mentale.
Ci siamo così trascinati al GUM grande magazzino di cibo armeno, e li mi hanno riempito la bocca di mille assaggi e sono uscito con altre due borse piene di leccornie da portare a casa.
Infine un salto nella Eravan poco turistica, non cavalcata dalle orde turistiche, quella normale, di tutti i giorni. Un giro alla stazione centrale. Ecco, qui veramente ho ritrovato l’Unione Sovietica. Il palazzo che assomiglia al museo dell’ermitage di Leningrado. Una stazione austera, poco affollata, dalle pareti bianchissime immacolate. Sulla guglia più alta, campeggia ancora lo stemma dell’Armenia sotto il regime. Il treno con i sedili in legno, mezzo arrugginito, veramente ti faceva pensare al tempo indietro e ancora resiste. Una parte dimenticata dal piano di svecchiamento, dallo spolveramento dei ricordi sovietici. L’unica cosa moderna, completamente stonata, era un cartonato di notevoli dimensioni, su cui campeggiavano le parole I Love Armenia dove la parola Love era sostituita da un cuore rosso. Mi guardavo attorno per dirmi come avessero potuto mettere una cosa del genere. E in barba a qualsiasi divieto di foto, io e Arianna ci siamo fatti un selfie godurioso. Certo che amiamo l’Armenia, anche sotto queste volte austere.
Un salto al laghetto artificiale, luogo di frescura degli abitanti, che non ha ancora visto un boom turistico, già mi vedevo le barchette a remi, il trenino, i negozietti. No, tutto era così minimal, come in una qualsiasi periferia di Varsavia o di Budapest. Il parco dei Leoni, a cui far riferimento alla città, è lì un po’ disordinato, un po’ dimenticato ma perfettamente iconico e inserito nel contesto della città.
Poco prima di arrivare all’albergo siamo entrati nei cortili degli edifici di Via Abovyadan, dove si scopriva una Erevan nascosta, assolutamente impensabile, conservata magnificamente, con le ringhiere di legno, i passaggi di pietra, tavolini. Un posto che piacerebbe molto a Ozpetec.
Così finita questa corsa, ci siamo salutati calorosamente, io la Marianna e il driver. Nella speranza che l’Armenia venga riconosciuta dall’Unione Europea come giusta e motivata ricompensa all’infinita tristezza di questo popolo.