Non avevo un programma definito per la giornata di ieri. Pensavo di oziare sulla spiaggia di Nusa Dua, invece Mater mi chiede di portarla in giro. Usti! Se lei mi dice una cosa del genere bisogna allora organizzarsi. Scarico l’app dei taxi, tipo Uber -mi sono sentito molto trend e fashion- e cerco di capire dove andare.
Il santuario di Tanah Lot è a circa 35 chilometri. Perfetto per una gita di mezza giornata. Dopo colazione, ci portiamo al piazzale d’ingresso del Club Med. Le guardie ci fanno compilare il modulo di uscita con tanto di nome, stanza, firma e formula giuringiurettachetorniamo. Non si sa mai che Denpasar ci risucchi nella sua bolgia e e ci inghiotta per sempre in qualche vicolo oscuro. Ho intenzione di rivedere ancora il cielo dell’Indonesia.
L’Uber indonesiano si materializza all’istante, nemmeno il tempo di fare la richiesta sull’app. Un signore scende tutto ossequioso e mi saluta: Mister Carletto? Ma sì, sono io, il cretino che l’ha chiamata. Chi altri potrebbe essere?
Inchini a destra e a sinistra, sorrisoni a 24 denti. Mater si sente una regina. Quasi l’autista se la prende in braccio per riporla sul sedile posteriore, neanche fosse un pacco di Amazon. L’auto di colore azzurro si infila nei viali di Dusa Nua, dove le rotonde sono adornate da una tonnellata di fiori e da statue (proprio come le aiuolette di Villa Olmo o piazza Cavour – patetici!). Altarini sui marciapiedi e festoni attorno ai pali. Sembra di essere a una parata.
L’autista, premuroso, mi chiede se può prendere la tangenziale, c’è un’extra da pagare. Ma sì certo, faccia pure. Dopo il casello, ci godiamo la vista dell’ampia baia di Denpasar. L’autostrada è liscia come un tavolo da biliardo.
A destra l’Enel, a sinistra il porto di Denpasar, laggiù l’aeroporto e qui di fronte la discarica. L’autista ci indica scorrendo con il dito i principali punti di riferimento della città. Si corre veloci, non ci sono auto ma è un’illusione. Presto usciamo dall’autostrada e ci troviamo nella bolgia dantesca dei sobborghi occidentali di Denpasar. Il codice della strada è solo un fastidio. Si passa dove c’è spazio o dove ti puoi infilare. Questa è la sola regola che vige in città. Nessun clacson, nessun nervosismo. Insciallah. Mi viene un nervoso, mentalmente mando a quel paese una decina di auto, passiamo a pochi centimetri dalle altre. Eppure, non ho visto un solo graffio sulla carrozzeria del taxi.
Un flusso compatto di veicoli motorizzati su strade strettissime: la pazienza dell’induismo. Evito di contare i centimetri dalle altre auto, cerco di guardare in alto, ma anche lì l’entropia visiva la fa da padrone. È tutta un ammasso, è qui la festa?, mi viene da gridare abbassando il finestrino… Un poliziotto con flemma cerca di dirigere il traffico ma agita le braccia a muzzo. Della serie chi vuole passare, prego. Morale della favola, quasi due ore per 40 kilometri. A piedi avrei impiegato di meno. Se non fossi stato su quel taxi avrei avuto già un travaso di bile.
Giungiamo al tempio. 150.000 rupie per il biglietto di ingresso. L’autista mi dice che mi aspetterà perché non avremmo trovato altri taxi. Va bene. Non ci vorrà molto.
Il tempio di Tanah Lot è modestissimo ma è situato su uno sperone roccioso ed è circondato completamente dal mare. La vista è di un fascino incredibile. Lo devo ammettere. Penso di essere nel set del film Mamma Mia. Mi aspetto di vedere Meryl Streep salire la scalinata che la porta alla chiesa dove la figlia si sarebbe sposata da lì a poco.
Invece delle cretine asiatiche si fermano in mezzo alla porta del tempio per scattare la foto perfetta, saltando come delle oche. La moda di adesso è mettere uno specchietto sull’obiettivo del telefono, così chi varca la soglia sembra flutturare in mezzo al nulla come se dovesse entrare in paradiso. Mi viene di scaraventarle giù dalle scale, così lo vedono il paradiso, quello vero.
Passeggio nel minuscolo paesucolo, finalmente non un centro urbano, senza auto. Potrebbe essere Porto Venere o le Cinque Terre. La vegetazione è perfetta, addomesticata. Gli alberi sono sorretti da bastoni. Qui non sono soltanto una questione estetica ma una cosa essenziale…
Mater si perde nei negozietti, controlla, osserva. Per fortuna che non sa l’inglese altrimenti chi la toglierebbe da lì. Un giro di un’ora è sufficiente per sentirmi appagato e sufficientemente rilassato per affrontare il ritorno.
Altro delirio, altre due ore incolonnati dal tempio fino al Club Med. No, non potrò mai avere la pazienza di un indonesiano.