L’isola di Bali ha la forma di una vescica, vista di lato, con la prostata annessa. Scusate la poesia, ma oggi proprio non sono riuscito a mantenere la calma e lo zen necessari per sopravvivere qui.
Decidiamo di prendere di nuovo il taxi per andare ad Ubud. Siamo pronti un’ora prima del previsto così da guadagnare tempo. Illusi.
Ancora una volta ci viene in soccorso l’applicazione Blue Birds che nel giro di un minuto mi manda un taxi bello pulito. Martinus, il nostro autista, è di poche parole e di poco inglese. Ci preleva davanti alla portineria. Avevo sbagliato indicazioni di prelievo perché avevo messo il nome dell’altro albergo.
Ma, cucù, non ti accorgi che non ci siamo? Chatto con l’app, mando la foto della portineria. Dopo cinque minuti, capisce e si sposta verso la giusta entrata.
Il tempo non promette bene, grossi nuvoloni arrivano da ovest ma è solo un falso allarme. Il cielo resta sereno per il resto della giornata. Raggiungiamo spediti l’autostrada, paghiamo il pedaggio e via, veloci lungo la baia di Denpasar. All’uscita, però, ci inchiodiamo nel traffico. Incomincio a implorare ma mi mantengo calmo. Il traffico della città non raggiungerà mai il casino di Ubud. Tutto sommato scorriamo, lentamente ma si procede. Il flusso ininterrotto di motorini ci accompagna a destra e a sinistra. C’è pure chi è contromano e ci sono i cassonati strapieni di robe, la polizia cerca inutilmente di ottenere almeno un flusso ordinato. Niente da fare. Tutti in fila, tutti in colonna.
Il traffico già sostenuto e pesante peggiora più ci avviciniamo ad Ubud. Stiamo completamente fermi. C’è pure una deviazione dove percorri dei tratturri delineati dagli scoli dell’acqua piovana. Sto per gridare. Ma mi trattengo.
Il Martinus, per rimanere in tema di prostata, mi chiede se può fermarsi perché deve fare la pipì. Lo guardo sconcertato. Ma non hai nemmeno due ore di autonomia? Me Lo si leggeva in viso.
Gli ultimi dieci chilometri sono la passione della via crucis. Ci vuole calma e sangue freddo, come nella nota canzone di Luca Dirisio. Io non avevo né la calma e nemmeno il sangue freddo, visto che faceva un caldo della madonna.
Arriviamo al parco delle scimmie. Esco sbuffando dal taxi, mandando improperi al cielo. Ma come sì fa? Due ore per poco meno di 50 chilometri? Trattengo la rabbia, mi trasformo in Indiana Jones. Non c’è la fila per il biglietto di ingresso. Almeno quello e mi consola.
L’ingresso promette bene, ma alla fine mi accorgo che si tratta di un parco, non una foresta! Il Parco Sempione a Milano sembra più grande. Che ci siano alberi, bé fa guadagnare punti ma… le mie aspettative non sono soddisfatte.
Le scimmie mi fanno dimenticare tutto. Sono ovunque. Già subito all’ingresso. E inizia la tragedia, nonostante le mille raccomandazioni. Un macaco salta tra le braccia di Mater, che lancia un urlo. La scimmia si innervosisce perché sente l’urlo, strattona per un braccio Mater quasi per dirle di non urlare. Interviene la sicurezza. La scimmia riluttante scappa, io faccio un cazziatone epocale a Mater. Le ripeto per l’ennesima volta che qualsiasi cosa dovesse succedere, non deve sbracare. Trattenere il respiro, stare in silenzio e accogliere questi animaletti con amorevole cura. Tanto le scimmie sono delle stronze ma siamo a casa loro.
Ricomposta la neutralità da entrambe le parti, dopo il conflitto bellico, la situazione migliora. Mater si fa toccacciare dai macachi, loro ne approfittano. Si siedono addirittura in grembo. Mater le abbraccia, le dà le mani. Quasi amici. Io mi guardo attorno. La foresta, sì insomma quel parchetto, è fitta. Gli alberi secolari sono maestosi. Se fossero a Como, sarebbero già stati capitozzati e spianati per un bel parcheggio.
Diciamo che l’atmosfera la si respira, ma solo quella. Giri l’angolo, sei in mezzo al traffico di Ubud con il flusso lento di motorini. Facciamo il percorso ad anello. Facilissimo. Solo che ci sono un po’ di saliscendi. Mater si affatica, non vuole andare avanti. Si fa rubare il pacchetto di fazzoletti mentre è seduta. La gente si fa i selfie sul ponte, brama per testimoniare di essere stata nel setting di una vera foresta.
Quanto è ipocrita. Se avessimo vere foreste nel mondo, non quattro sparuti alberi su cui vivono le scimmie, sarebbe davvero tutto diverso e non ci sarebbe la fila per i selfie. Con questo spirito ecologista, cammino lungo il percorso. Fotografo i macachi nelle loro abituali pose di spulciamento. Alcune macache tengono i figli attaccati al petto, le testoline minuscole spuntano dalle loro braccia. Ogni tanto qualche baruffa, una banda del East Ubud litiga con l’altra banda del West Ubud. Si azzuffano, gridano, rotolano sui gradini. Dico a Mater di tenersi salda al corrimano prima che venga urtata da questi pulciosi animali. E così dopo un’oretta scarsa siamo praticamente alla fine del percorso. Io sono soddisfatto a metà. L’anima animalista può ritenersi riempita un po’ meno quella ecologista.
Usciamo dal cancello e ci troviamo catapultati nello smog e nel traffico. Fino all’ultimo avevo programmato un giro per il centro della città, ma non appena sulla strada, nello smog, nel casino e nell’entropia totale, ho desistito subito. Non me la sono sentita di fare altri passi. Ho aperto l’applicazione e ordinato la corsa. Il ritorno è stato peggiore dell’andata, soprattutto in uscita da Ubud. Fermi, inchiodati sulla strada, in mezzo allo smog e al rumore. Il mondo ti faceva compagnia seduto nel tuo sedile solitario del taxi.
Veramente mi sentivo invelenito, mi chiedevo come potessero vivere gli indonesiani. Peggio delle scimmie o dei topi. Sono felici? Non so, cercavo una risposta nei templi, nell’odore di incenso che si respirava dappertutto.
Sono arrivato distrutto al Club Med, col fiato corto, non volevo vedere nessuno. Volevo solo un po’ di pace e respirare aria pulita. Ma Mater voleva che la portassi al mercato…
Aaaaaaargh