Dopo l’esperienza difficile ad Ubud, desideravo fare un’escursione tranquilla e vicina, senza sbattimento. Ho scelto il GWK park (Garuda Wisnu Kenkana), un complesso monumentale visibile da tutta la penisola di Bali, che mi ha sempre incuriosito. Dieci chilometri? Cosa saranno mai!

Il Giuseppe è l’autista del Blue Bird, più giovane, più simpatico, da poco diventato padre di una bambina, Michela, di due anni. Mi sento molto Maria de Filippi, Mater lo ha tempestato di domande, e lui non si è tirato indietro.

Partiamo come al solito dal piazzale del Club Med. Compiliamo la scheda di uscita, l’autista apre il bagagliaio su richiesta della polizia che è in cerca di esplosivi. Ci dirigiamo al centro della penisola meridionale di Bali. Il traffico non manca. Infatti, appena usciti dalla strada dei resort, il traffico si presenta più rognoso che mai. È tutto lì concentrato nell’unica strada semicircolare. Quasi un’ora per arrivare, il traffico questa volta è dato dai mezzi pesanti che trasportano acqua e che non riescono a salire le collinette.

Giuseppe ci scodella nel parcheggio e dice che ci avrebbe aspettato. È disponibilissimo e gentile. Accettiamo.

Così sotto una tettoia facciamo il biglietto online, con l’aiuto del tickettaro nerd che ci fa avanzare spediti nei bit e applicazioni indonesiane. In meno di un minuto avevo la ricevuta in pdf nel telefono. Proprio come a Como, quando devi fare un qualsiasi biglietto.

Il parco è vastissimo, mi aspettavo una sorta di Gardaland, ma è molto di più. È un monumento alla cultura di Bali e dell’Indonesia in generale, una specie di Altare della Patria, verso il quale portare rispetto. La statua è impressionante, ancor di più se vista proprio sulla collina.

C’è il Visnu che “cavalca” il Garuda, l’animale mitologico. Non volevo essere blasfemo ma a me venivano in mente tante cose un po’ osé che cacciavo dalla mente prima che venissi bannato con infamia dall’Indonesia.

Alla collina ci si arriva con il buggy. Mater è divertita: con la scusa di farsi aiutare, si aggrappa alle mani di tutti e si gongola tra i saluti, gli inchini, gli abbracci. Io sua madre, lui mio figlio. E via così fino su in cima dove c’è l’entrata principale. Peccato non riuscire a salire sulla sommità della statua, l’apertura dell’ascensore era alle 11. Noi dovevamo tornare indietro ma si sarebbe goduto un invidiabile panorama.

La statua vista dal basso è ancor più impressionante. Visnu è quasi nascosto dalle ali dispiegate del Garuda, che ha la testa piegata a destra, con il becco aperto e lo sguardo fiero (ok, non andare avanti e morditi la lingua). Scendiamo lentamente dalla collina. Ci sono i giardini con un’infinità di fiori di tutti i colori, grandi e piccoli, cascate e piscinette zen coperte interamente dalla vegetazione; templi buddisti e statue gigantesche oltre che a rocce spettacolari.

In Italia, un parco così non esiste. Arrivo alla Plaza Garuda. Il testone dell’aquila è in primo piano, quasi puoi accarezzare il becco. L’ammiro nella sua grandezza. Fa impressione, così come il gigantesco Visnu con proporzioni di un piccolo grattacielo.

Faccio mettere in posa Mater, lei cerca di nascondere il bastone; mi viene da sorridere. Cosa vuoi nascondere? Con queste divinità gigantesche!

Le statue decorano i percorsi, i dragoni di pietra ti si attorcigliano, foreste di bambù ti disorientano. Io guardo ammirato, quasi commosso. Pensavo di trovarci solo il Garuda, non solo ci trovo un parco bellissimo e curato alla perfezione, ma la potenza intera dell’Indonesia, della sua grandezza come nazione.

Avevamo preventivato un’ora ma a metà cammino mi accorgo che erano passate quasi due ore. Mando un whatsapp di scuse al Giuseppe, dicendogli che stavamo arrivando. Bugia gigantesca ma d’altronde non potevo far niente. Poi con la velocità turbo di Mater…

Ho cercato di passare per gli shortcuts degli invalidi, come quelli all’Ikea, senza dover passare per forza dalle candele ai bonsai, dai vassoi alle lampade e così via.

Nell’ultima discesa, orrore, c’è un miglio di negozi. Tragedia. Mater la ruzzo su ma il richiamo dello shopping è irresistibile. Entra, guarda, toccaccia foulard, vestiti, souvenir. Fa la sostenuta. Esce con una faccia poco interessata ma so che lei ci starebbe tutto il giorno.

Le commesse ci seguono, ci fanno inchini a 90 gradi, sorrisi. Madame di qua e madame di là. Con fatica arriviamo al trenino, mi vergogno infinitamente, ma il parcheggio è a oltre un chilometro e non posso farne a meno. Il conducente anche lui si sbraccia, allunga una pedana. Tutte le hostess aiutano Mater a salire. Lei si sente una regina, come sull’Orient Express ma la corsa non termina a Vladivostok.

Al parcheggio temo il rimprovero di Giuseppe ma ci accoglie con un sorrisone. Aiuta Mater, la tira giù dal trenino alzandola in braccio come un fuscello.

A questo punto, mi gioco l’ultima carta. Visto che siamo qui, non è che mi porteresti alla spiaggia di Melasti? In fondo sono pochi chilometri a sud. Non fa una piega, il suo sorriso e contagioso. Andiamo a sud, finalmente la conurbazione di Denpasar lascia spazio a macchie verdi naturali, non ci sono case. Si sente l’odore del mare, il traffico è sparito. Davvero Bali dovrebbe essere tutta così. Arriviamo in pochissimo tempo, dopo alcune curve. La strada precipita verso il mare con vistosi tornanti. Le scogliere ci proteggono. Sculture di cigni sono a bordo strada. Arriviamo alla spiaggia, protetta da una porta gigantesca. Sembrerebbe una Rimini, ma la componente asiatica è molto forte. Sono disorientato, non riesco a capire molto bene. L’acqua però è splendida. Mi viene voglia di fare un bagno, ma non vorrei veramente usufruire troppo della pazienza dell’autista. Il caldo è perfetto, in una zona di spiaggia non si può fare il bagno perché è zona sacra. Ci sono incensi dappertutto, bandierine e guerrieri di marmo a difendere quel poco di spiaggia. Cammino, guardo in alto. Mater è sotto a un ombrellone intento a ciacolare con Giuseppe. Non so cosa si stiano dicendo. Non mi interessa. Cammino sulla spiaggia dorata fine, diciamo quasi bella come quella dei Caraibi. Peccato per le onde, altrimenti la pazzia l’avrei fatta.

Soddisfatto, pieno nel mio ego, finalmente risalgo e questa volta, sì, davvero torniamo in albergo. Ci salutiamo abbracciandoci, baciandoci. Ci saremo rivisti il giorno dopo per la gita nell’entroterra di Bali.