Con la giornata di ieri ho visto finalmente l’Indonesia che pensavo, quella che trovi nel tuo immaginario quando pensi a Bali, ma anche la peggiore, quella per cui veramente non vorresti mai vivere in un posto del genere.

Ma andiamo con ordine.

Giuseppe, ormai è entrato nei nostri cuori, è venuto a prenderci con un’auto mastodontica, di quei SUV che ci vogliono i tre gradini per salirci. Bianchissimo e accecante. Puntuale alle 8, ora dell’appuntamento, si è presentato in portineria.

Dopo aver fatto salire Mater, ci siamo diretti a nord. Volevo vedere due templi, uno, va bé, turistico, un must che devi vedere se vieni a Bali e l’altro sconosciuto ai più. I precedenti tassisti avevano dovuto cercare su Google Maps la posizione esatta. Giuseppe era l’unico che sapeva dove si trovasse sebbene non l’avesse mai visto.

Con entusiasmo, abbiamo attraversato la baia di Denpasar con i soliti nuvoloni della mattina. Ci gettiamo a capofitto nell’ingorgo della città.  Il traffico era sorprendentemente gestibile, forse perché era sabato, forse perché era ancora presto.

Le migliaia di motociclette ovviamente ci hanno accompagnato come un lungo corteo nei viali della città. Questa volta abbiamo puntato dritto in direzione nord e abbiamo sfiorato il centro.

A Bali non ci sono centri urbani con un nucleo storico e una periferia. La parte meridionale di Bali è tutta una conurbazione. Se c’è una strada, ci sono le case, i negozietti, le attività lavorative svolte proprio sul marciapiede. Non ci sono confini tra le “Reggenze” termine amministrativo per comune. Vaghi in questo agglomerato di abitazioni senza vedere l’inizio e la fine. Devi fare almeno una quarantina di chilometri per vedere uno straccio di verde, una risaia in un contesto naturale, che non sia contaminata da abitazioni.

Ma anche quando ormai eravamo quasi vicini al primo tempio, c’era il brulichio di migliaia di persone, il rumore di motorini che ti tagliavano la strada. Siamo arrivati al lago dopo alcuni tornanti. Nel punto più panoramico, una grossa fragola posticcia ci indicava lo spot perfetto per le foto. Ero perplesso. Nonostante il paesaggio notevole, il fastidio di sapere che era tutto un formicaio lì sotto mi lasciava inquieto.

Dal punto panoramico, ancora alcune curve, arriviamo al lago, una specie di Segrino, con annessa una città sui cui tetti delle case svettava una cupola coloratissima di una moschea.

Il tempio Ulun Danu Bratan è proprio all’inizio. C’è un grosso parcheggio con tante bancarelle. Si capisce subito che è un posto turistico. Giuseppe ci accompagna nel tempio. Il giardino è curatissimo, i fiori sono nel pieno dello splendore. Il cielo è di un azzurro perfetto, che non avresti mai pensato, visto che siamo circondati dalle montagne. Il tempio è lì, nel lago nella sua splendida posizione. Non c’è altro da dire. La pagoda svetta nel cielo, si specchia nel lago. Ci sono altre costruzioni, ma la gemma preziosa è proprio la pagoda. Tutto il resto perdeva di importanza anche perché hanno trasformato il resto del tempio in paccotiglia turistica. Una specie di Gardaland, dove puoi camminare sulle ninfee in mezzo al lago, accarezzare pulciosi animaletti, affittare un vestito balinese e farti fare la foto. Ho tralasciato tutto questo e mi sono concentrato sullo splendore e quale carico spirituale potesse avere nel passato.

Siamo scappati dopo circa un’ora e ci siamo diretti verso l’altro tempio, a dire il vero, non distante, forse una ventina di chilometri, per raggiungere il quale non avremmo mai immaginato che strada.

Io non mi ero preoccupato della logistica. Mi fidavo del Giuseppe. Incomincio ad avere sentore del camel trophy che avremmo affrontato subito dopo l’incrocio in prossimità del secondo lago. La strada è diventata un tratturo, non dico sterrata ma facevi fatica a riconoscerla. Lungo i bordi della strada le scimmiette ci guardavano per dire, siete sicuri?, ma proprio proprio sicuri? Leggo distrattamente un cartello ma avrei dovuto dargli l’importanza che aveva. C’era l’indicazione di una wilderness area e noi ci saremmo finiti proprio lì. Mater ha iniziato ad avere l’ansia. La strada sparisce. Ci sono dei cordoli di cemento, ma per lunghi tratti era solo terra battuta. Pendenze vertiginose, motorini che sbucavano da punti ciechi, buche che erano dei crateri. La cosa che mi lasciava stupefatto che sì era una wilderness area ma c’erano case, scuole, templi e addirittura un benzinaio. Ovviamente eravamo persi nella giungla, la natura era nel pieno rigoglioso splendore. Le montagne erano davanti a noi. Io ho abbassato il finestrino per fotografare.

Mater si è fatta venire la crisi isterica – muoio – continuava a dire e a mugugnare. Io che cercavo di zittirla. Tanto ormai eravamo nella piena wilderness area, che cosa potevamo fare? Niente! Ero completamente nelle mani dell’autista, che avanzava sicuro, senza incertezze. Schivava gli alberi, le liane, i cani, le galline, i bambinetti che si lanciavano in mezzo al sentiero.

Finalmente l’Indonesia vera, rurale, quella che immaginavi. Magari da un momento all’altro sbucava Sandokan o Tarzan. Non so, io ero veramente divertito. Mater era ad un passo dal collasso. Dopo un’ora sbuchiamo sulla strada asfaltata. Giuseppe si prodiga in mille scuse, dice di essere dispiaciuto ma d’altronde non c’erano altre strade e che aveva fatto lo stesso percorso ormai cinque volte.

Mater risorge dal suo mezzo collasso, inizia a parlare, a scaldarsi, a ricordare di quando si era sposata negli anni 60 e blah blah…

L’ingresso del tempio è modesto, non lo si vede dalla strada. Soltanto quando ci fermiamo, ci rendiamo conto di essere arrivati. Siamo nell’entroterra, in zona collinosa, nel monferrato balinese, nell’oltrepo’ indonesiano.

Mater scende, l’autista l’abbraccia in un lungo abbraccio consolatorio. Io ho già salito metà gradinata. In cima ci obbligano di indossare il pareo. Mater tirchia chiede se ce lo regalano. Le do una gomitata.

Il budda dormiente è lì davanti nella sua magnifica posizione, in alto, al centro di un piazzale di marmo. Un incanto, sono commosso. Mi ricorda quello di Bangkok. Ma qui è ancor più speciale, col sole che spioveva direttamente sul marmo bianco e l’azzurro che lo contornava.

Giuseppe è commosso quanto me. Non l’aveva mai visto. Giuuuuuura gli faccio di rimando. Sì. You see! Ho scelto bene… Non riesco a staccarmi da quella visione. Ne valeva la pena anche con il rischio di essere inghiottiti nelle viscere della terra.

Con riluttanza, con la pianta del piede arrostita sui marmi surriscaldati del tempio, ci lasciamo il tempio alle spalle. Usciamo dal cancello e si fiondiamo nella trattoria di fronte. Balinese Cousine. Va bene qualsiasi cosa.

Porco con riso, zuppe di verdure e altre cose non meglio definite. Tutto piccante ma avrei mangiato qualsiasi cosa. Ovviamente Mater ha lasciato tutto nel piatto e nelle scodelle. Peccato. Almeno per rispetto. Ma fa niente. Io e Giuseppe abbiamo spazzolato tutto. Ho tracannato una coca-cola per spegnere il bruciore con scarsi risultati.

Alle 14, questa volta su una strada degna di questo nome, ci portiamo nell’inferno di Denpasar. Arriviamo in albergo dopo 4 ore, alle 18. Ma è possibile impiegare 4 ore per fare 50 chilometri. Non ero sclerato ma alla fine ero sconsolato. Ma come fanno a vivere così, come fai a perdere ore della tua vita in questo modo? In quattro ore sarei andato e tornato da Bologna, ovviamente senza traffico.

Questa cosa è la parte più brutta dell’Indonesia che non riesco a tollerare. Certo, sono la quarta nazione più popolosa del mondo, vivono come dei topi. Ma costruitela un’autostrada, delle infrastrutture, qualcosa che permetta di migliorare la idonesian way of life. Non stupitevi di Mater che ha 85 anni, che non avete mai visto una donna di quell’età, poiché la vita media è di 60 anni. Ma datevi da fare! Siete così avanti nelle tecnologie ma non riuscite a fare qualcosa che vi permetta di vivere in maniera almeno un po’ più dignitosa.

Lo so è difficile, ma quando ci chiedete l’obolo per Bali, quando ci fate pagare 40 euro un visto, ecco, sfruttateli quei soldi. Non posso impiegare 4 ore per cinquanta chilometri. Non posso permettermi di perdere un tramonto e vederlo tra i vetri oscurati di un SUV. Non so, sono sceso con sentimenti contrastanti, non sapevo se gioire delle belle cose viste o se continuare a mandare improperi al cielo.

Ero scosso profondamente quando ho varcato il cancello del Club Med.