Affrontare il delirio di Bali, anche no, così siamo andati ad Uluwatu qui vicino. Un tempio antichissimo, affacciato sul mare, pieno di scimmie. Lette le recensioni su google, tutte si focalizzavano sulla cattiveria delle stesse. Fatto tesoro di questo, ho istruito Mater come ho potuto ma è stato assolutamente inutile.

Con tutta calma ci portiamo verso ovest con il Blue Bird guidato da Krisna, disonestello, perché quando ci ha aspettato al parcheggio, non ha stoppato il tassametro e ci ha fatto pagare molto di più del dovuto. Ma non ti preoccupare caro Krisna che ti metterò una pessima recensione nella vostra app e vedremo. Aspetto solo di prendere il volo del ritorno, almeno sarò in territorio neutrale.

La parte sud di Bali, la penisola di Kuta Selatan, non è ancora oltraggiata da abusi edilizi, ma sta lentamente trasformandosi nella nuova Rimini. Si vedono scheletri di costruzioni lasciate incompiute. Poco del verde è rimasto. Ma poi dico, anziché costruire delle infrastrutture, ponti, strade larghe, lasciano solo tratturri dove ci passa a malapena un’auto.

L’unica strada degna di questo nome, addirittura con due corsie è quella che corre ad est, per forza ci sono tutti i resort di Nusa Dua. Tutto il resto è lasciato al sempre più consolidato abuso edilizio. Ovviamente per arrivarci, abbiamo dovuto affrontare mille insidie, infilarci nelle stradine senza margine di manovra. Se hai solo un centimetro a disposizione puoi passare, ovviamente senza dare la precedenza a nessuno. È una traslazione unica, le auto qui non si guidano. Navigano da un punto A a un punto B e non importa come ci arrivano, anche dopo tre ore… Siamo capitati nel bel mezzo di un funerale, che sembrava più la processione di Santa Rosalia a Palermo, che un trasporto di un feretro.

L’ingresso del tempio è punteggiato da un numero considerevole di bancarelle, bancomat e persone che si improvvisano guide. Il Krisna lascia il taxi in mezzo alla strada, tira giù il sedile e inizia a ronfare.

Giuro, ero sconvolto. All’ingresso paghiamo il biglietto. Ci aiutano a indossare il pareo. Mi fa specie sentirlo sulla pelle delle gambe: chissà quante persone lo avranno indossato. Simpatici vecchietti edentuli, che ti sputano addosso, si raccomandano sull’atteggiamento da tenere nei confronti delle scimmie, soprattutto ci elencano gli oggetti che categoricamente devi lasciare nello zaino: occhiali, cellulari e cappelli. Io traducevo tutto, mentre mi asciugavo la faccia, Mater sembrava avesse capito tutto. Una ragazza per centomila rupie, circa 6 euro, una cifra enorme per un indonesiano, ci avrebbe fatto da guardia del corpo, perché lei sapeva gestire le scimmie, era una psicologa, sapeva dialogare con loro. La donna che sussurrava alle scimmie.

L’ho ignorata bellamente. Entriamo, il sole si faceva sentire con un calore particolarmente afoso. Abbiamo costeggiato il sentiero a picco sulle scogliere, in lontananza il tempio. Poco scenografico ma posizionato in un posto bellissimo, su uno sperone di roccia.

Le scimmie ci ignoravano, cercavano anche loro il fresco. Abbiamo passeggiato sui lastroni di marmo traballanti. Non c’era cura. Il muretto addirittura sembrava che stesse cadendo da un momento all’altro.

Il mare si infrangeva sulle rocce. Passeggiamo, tre vecchiette spazzano il marmo lasciando tutta la sporcizia nei giardinetti. Proprio non la capisco. Saliamo le scale, Mater fa un po’ fatica. Non vuole essere lasciata sola. Al tempio, nella parte più alta, si gode una piacevole brezza marina. I macachi sono sdraiati, riposano, alcuni si spulciano, altri sono un po’ infastiditi dalle nostre presenze.

I cortiletti interni non possono essere visitati, sono aperti solo per coloro che hanno intenzione di pregare. Dall’alto si scorge tutto il sentiero sulla scogliera. Ritorno in basso. Dico a Mater che vado a vedere l’altro tempio. Si siede accanto a delle donne in un posto di ristoro, vicino alle toilette.

Non faccio in tempo ad arrivare al sentiero, sento Mater che grida, che piange disperata. Torno indietro di corsa. Non capisco che cosa sia successo. Una delle donne delle pulizie chiama la guardia. Vedo in alto un macaco con il telefono in bocca. La cover strappata è giù per terra. Inizio a cazziare Mater, oca, sei un’oca patentata. Ma non pensavo che mi prendessero il cellulare. E tu ti sei seduta e cosa hai fatto? Ma volevo vedere solo l’ora. La guardia individua il malandrino, gli parla, lo guarda negli occhi. Lui risponde indispettito con gemiti. Lecca il telefono. La guardia non demorde. Gli tira un casco di banane, ma anche con quella bontà non molla la refurtiva. Ci sta proprio sopra noi. La trattativa è serrata. Il baratto diventa quasi una supplica. Il macaco vuole di più. Gli buttano lì altra frutta. Con insistenza la guardia gli ordina di lasciare il telefono. A quel punto, stanco, il macaco lo lascia cadere e va prendersi le banane.

Non ci molla con lo sguardo. La guardia si volatilizza. Mater finisce il suo pianto. Io arrabbiatissimo, la faccio sentire in colpa. Neanche un minuto ti posso lasciare da sola! Lei tenta di giustificarsi. Io non demordo. Ma perché dovevi giocare col telefono? Mi pare che te lo abbiano detto in mille modi… Le passa il pianto, si sente sollevata dal fatto di riavere indietro il cellulare. Inizia la fase isterica, le viene la ridarola. Alza il bastone verso la scimmia, che per tutta risposta di rimando le caccia la lingua. Prendo Mater e la trascino fuori prima che finisca in rissa.

Povera! Usciamo senza nemmeno vedere il secondo tempio. Individuiamo il taxi, lui che dorme col sedile abbassato e il tassametro che segna le 300 mila rupie. Non dico niente ma viene voglia di dirgli che se ne può andare a quel paese, che siamo italiani ma non fessi. L’ho pagato una volta che ci ha restituiti al Club Med ma non gli ho stretto la mano e ho evitato assolutamente l’inchino.