Oggi abbiamo completato le gite fuori porta, quelle nell’entroterra di Bali. Volevo assolutamente vedere una cascata, e tra le molte – ce ne saranno almeno una ventina – ho scelto la più vicina a Denpasar, nonostante le recensioni di Google non fossero entusiastiche, come del resto tutte le altre.

Ero tentato di lasciar perdere, per non affrontare il traffico della città, per non disilludermi… Tra l’altro aveva piovuto di nuovo la notte. Chissà il macello.

Il sincero motivo, a dire il vero, è stata la delusione verso Giuseppe, il nostro tassista. Gli avevo mandato una richiesta il giorno prima. Lo avrebbe impegnato solo per la mattina. Ero sicuro che non fossero più di 35 chilometri. Era disponibile ma alla stessa cifra delle altre due escursioni, dove di chilometri ne avevamo fatti 140, quando eravamo stati in giro tutta la giornata.

No, caro Giuseppe, non è così che si fa. Non si tratta di soldi, ma ti abbiamo dato ben 2,5 milioni di rupie oltre alle 300 mila del giro in taxi durante la gita al GWK. Per noi non sono tanti, lo so. Per te, che prendi 4 milioni di rupie al mese, circa 250 euro, sono un’enormità. Una manna di soldi che ti vengono mandati giù dal cielo.

Mi dispiace anche perché quando ti ho risposto -no grazie, I prefer of not- tu mi hai mandato solo un laconico: Ok Mr, senza far capire quali sentimenti provassi. Mi è dispiaciuto perché Mater era affezionata a te, ti aveva chiesto di mandare un bacio alla figlia; inoltre eri cattolico e capivi lo spirito di fratellanza tra cristiani.

Ripeto generosi ok, ma fessi no. L’amarezza per tutti gli abbracci ogni volta che ci avevi lasciati davanti al Club Med. E a Mater questa cosa le aveva fatto estremamente piacere.

Ma mi sono detto, al diavolo. Ho organizzato con un altro taxi. Ho speso meno della metà, 30 euro e avevo a disposizione il taxi per ben 6 ore. Come la mettiamo?

È arrivato questo Ugo, di carnagione più scura, giovanissimo, di poche parole e ancor meno di inglese. Ci ha portato alle cascate. Non è passato dall’autostrada, allungando il percorso di almeno 10 chilometri. Misteri della fede! Devo dire però che questa volta sorprendentemente non c’era il traffico esasperato degli altri giorni, forse perché era venerdì, giorno festivo per i musulmani, forse perché non c’erano i mezzi pesanti. Insomma, i viali di Denpasar sono filati via lisci senza problemi.

Negli ultimi chilometri, si vedono macchie di verde e alcune risaie. Le strade sono martoriate dalle buche e in alcune di esse ci sono pozzanghere nelle quali puoi praticare pesca sportiva. Più ci avviciniamo alle cascate, diventa tutto più turistico. Cartelli pubblicitari, negozi, ristoranti, pacchianate varie.

Al parcheggio Mater scende e si fionda direttamente alle bancherelle dei mercatini. La trascino via. Ancora? Non ne posso più.

Le cascate si aprono davanti a noi. Ci sono un’infinità di davanzali dai quali ammirare le cascate, ci sono anche altre cose inutili: un gigantesco nido di paglia dentro il quale potevi fotografarti, dei cuori e dei cigni. Ti metti in mezzo, le cascate sullo sfondo e la cornice completa tutto il resto.

Lascio Mater sui primi gradini, preferisco non farla scendere dalla scalinata. Non me la sento con tutti quei gradini sconnessi. La lascio facendomi promettere di non andare in giro, di non farsi fregare il telefono e non cedere alle lusinghe dei compratori. Mi sono raccomandato più di una volta di non spostarsi neanche dovesse arrivare lo tsunami dal Mar di Giava. Giurin Giuretta, croce sul cuore.

Non ero convinto, d’altronde l’autista era rimasto al parcheggio. Non c’era nemmeno Giuseppe che me l’avrebbe tenuta a bada. Mi sono lanciato giù dalla gradinata, cercando di fare il più in fretta possibile. Le terronate aumentavano più mi avvicinavo alla cascata. Cuoricini, frasi fatte, good vibes, waterfalls in love. Mi sentivo come Gesù al tempio. Avrei divelto tutto, avrei tirato giù ogni cosa. Ma…

Ho guardato dritto la cascata senza lasciarmi distrarre dalle altre trovate indonesiane. Ogni tanto cercavo Mater in alto ma era impossibile con la vegetazione. Speravo soltanto che non facesse disastri. Arrivo alla cascata. Notevole. Un bel setting ma anche una marea di gente nella pozza sottostante di acqua melmosa piena di rifiuti. Ma questi indonesiani non sono capaci di preservare un posto bello come il paradiso? Che rabbia! Guardavo in alto, dal ponte di ferro, si gettavano con il bunging jumping. Una folta di incenso mi è entrata direttamente nei polmoni. Ero nel pieno contrasto di emozioni. Tutta quella gente, avrei preferito che affogasse direttamente nella cascata. Tutti a farsi i selfie, a sbaciucchiarsi nella nebbiolina, a trovare la pace interiore.

No, proprio non ce la facevo a stare lì. Me ne sono scappato praticamente dopo pochi minuti. Ripercorro la scalinata in salita. Evito di guardare le pacchianate. Ad un certo punto la mia attenzione viene catturata da un tempietto nascosto in una costa della montagna. Non c’è nessuno. C’è un bacino d’acqua di acqua trasparente, che fuori esce da quattro fontanelle. Ecco, mi balena l’idea di entrarci e di purificarmi, dal momento che nell’altro tempio non ero riuscito. Appoggio lo zaino, gli occhiali, il cellulare e la macchina fotografica. Mi infilo coi piedi e poi entro lentamente. Un novello Siddharta che cerca la propria via interiore. L’acqua è piacevole, il muschio verde ti incornicia. Infilo la testa sotto a cannella e mi lavo. Avrei voluto il Fructis ma va bene. Sono stati cinque minuti intensi, non mi ha visto nessuno, ero completamente nascosto da tutti. Soddisfatto esco e mi asciugo alla ben e meglio. Cerco di non scivolare e risalgo le scale.

Ritorno nel caos totale, tra venditori ambulanti, induisti che pregano e sniffano incenso, cinesine che ad ogni gradino si fanno il selfie, balene che respirano come un mantice, bambini urlanti che sfidano la gravità e le capocciate sul marmo. Il caldo si fa sentire.

Vedo Mater nella stessa posizione dove l’avevo lasciata. Mi consola. Non deve aver fatto danni. Ci facciamo anche noi il selfie. Anzi ce lo fa un musogiallo di non so quale nazionalità. Ci mettiamo nella specie di altalena. Mater è in evidente difficoltà. Ci appollaiamo sui primi gradini. L’asiatico esclama con il cellulare in mano: good, nice. Put your arm on her shoulder. Look at each other. Dal che ho sbottato. Oh! Senti cretino, sono suo figlio, she is my Mama, strong Mama. 85. EIGHTYFIVE. Un coro di esclamazione si alza dalla folla circostante. Un applauso e in cinquanta si prodigano a far scendere Mater dal trespolo.

Vedi? Italians do it better. E giù inchini, glazie, glazie. Buona giornata. Cheese. E mille altre sdolcinature. Credo che debba misurarmi l’emoglobina glicata. Ma Mater era raggiante e contenta. Decide di farsi tutti i negozietti. E nella sua migliore forma. Guarda, fa tirare fuori mezzo negozio e poi se ne va. Così in tutti negozi della strada.

Erano le undici, tempo di tornare. Cerchiamo Ugo che è seduto ai piedi di un albero. Non socializza coi suoi connazionali. Rimane in disparte. Lo chiamo e lui si sorprende. L’avevo chiamato per nome, Ugo. Mi veniva da ridere. Ma come si fa a chiamare un indonesiano Ugo?

Saliamo sul taxi, Ugo è bello sveglio e pimpante. Sfreccia nelle stradine dissestate e fa il filo alle migliaia di motorini che ci passano accanto. Lo zen, ecco cos’è. Rimango inchiodato sul sedile e non mi tange niente. Osservo, guardo e aspetto che passi. Non bisogna provare emozioni. Nessuno si schianta a Denpasar. Si vive e si passa solo se c’è spazio.