L’ultimo giorno è stato di viaggio.
Dovevamo partire a mezzanotte, il Club Med ci ha permesso di utilizzare la stanza per tutto il giorno, un gesto che ho apprezzato molto. Di solito, le stanze vanno lasciate libere al mattino. Ne ho approfittato, come avrete visto nel video di ieri, per fare un bagno al mare sulla spiaggia di Melasti, nella parte sud di Bali.
Il mare davanti al nostro resort non è bellissimo: c’è il porto poco più a nord, il fondale è pieno di alghe che vengono trascinate sulla spiaggia. Non si può dire che fare il bagno lì sia un’esperienza mistica, ma la mancanza di un mare invitante è compensata dalle numerose piscine sparse nel parco del resort, talmente grande che se ci si perde, nemmeno la Protezione Civile riuscirebbe a trovarti.
Abbiamo usufruito anche della cena, e Mater ha salutato tutti, dalle cameriere ai cuochi, dagli animatori al personale della reception. Era incontenibile, continuava a parlare in modo compulsivo, dimenticandosi che nessuno capiva l’italiano. Io facevo del mio meglio, ma non potevi gestirla. Era tutto un ciao-ciao-buongiorno-buonasera-come stai.
Ma era il Vincent al quale avrebbe voluto riservare il suo saluto migliore. Essendo il capo villaggio non era sempre disponibile. Alle 21, però, è venuto a salutarla direttamente sul pulmino che ci avrebbe portato in aeroporto. Mater si è commossa, ha pianto e ha iniziato a parlare ancor più veloce.
Vincent, abituato a queste tragedie, praticamente tutti i giorni, non si è scomposto. L’ha salutata calorosamente, dicendo qualche parola di francese, più comprensibile. Coi lacrimoni, Mater poi si è lasciata condurre dai movimenti della strada sconnessa. In poco tempo ci siamo diretti verso l’autostrada.
L’aeroporto era affollato come la conurbazione di Denpasar, con code per entrare e mille auto e motorini. Il solito caos di Bali. Le file erano interminabili, soprattutto ai banchi della Emirates. Mi veniva male. Mater, spronata da me, ha iniziato a zoppicare e fare la facies dolorosa. Non ci è voluto molto molto, dopo tutti quegli addii. Così, seguiamo gli addetti che ci spianano la strada dritta dritta fino al check-in giusto. Lo stesso avviene per i controlli di frontiera e di sicurezza. Guardavo tutta quella folla che avanzava lentamente. Gnè gné, io sono davanti a voi e voi rimanete li a marcire. Che goduria. Il tempo massimo di controllo è stato di cinque minuti. La sicurezza ci scortava con sorrisi e inchini. Sono passato sotto il metal detector senza togliermi la cintura o svuotare le tasche, usando il varco del personale “crew”.
Bene. Hai visto che la stampella ogni tanto serve? Quasi me la tira addosso
Mater ha trascorso il resto del tempo nei vari negozietti, spendendo le ultime rupie. Quando non le restava che l’equivalente di pochi centesimi, voleva spenderle a tutti i costi, nonostante non bastassero nemmeno per comprare mezza bottiglietta di Coca-Cola.
Il Boeing 777 era già al gate, pronto per ritornare a Dubai. La folla era infinita, con bambini urlanti, persone che pregavano, sciure con le borse griffate del Duty Free. Ci fanno passare per primi. Lungo il finger c’è una staffetta per accompagnare Mater nel pancione del Boeing. Io mi addormento subito, dal Mar di Giava fino a Dubai. Non noto le circonvoluzioni nel cielo di Dubai. Mi sveglio di soprassalto, ormai sulla pista. Sono passate otto ore e quasi non me ne sono accorto. Parcheggiamo in una zona sconosciuta dell’aeroporto, all’aperto. Ci attaccano la scaletta. Non mi era mai capitato. Mater scende come se fosse la Premier. Ci portano al terminal dopo aver percorso chilometri nel nulla, sulle corsie aeroportuali. I giganti A380 ci sfioravano, con le loro ali lambivano il pulmino.
Ci portano nella longue, e a quella parola mi rianimo. Vuoi vedere che ci offrono il trattamento VIP? In realtà mi ero perso la parola DISABLED. Un lazzaretto di persone che dormivano, parcheggiate nella sala disadorna e poco illuminata, lontana anni luce dagli sfarzi del marmo e dal Duty Free. Una volta lì, mi viene la tristezza. Dico a Mater che non posso stare tre ore in quel posto.
Si alza dalla carrozzina, tra lo stupore generale. Qualcuno si aspetta un miracolo. Saliamo le scale mobili e torniamo nel DBX sfarzoso, opulente, sfavillante e pieno di negozi Duty Free. Mater si perde, vuole spendere quelle rupie che tanto le danno fastidio. Non capisce che oltre a non valere niente, gli arabi, al massimo, le userebbero come festoni per decorare qualche quartierino periferico di Dubai.
Non comprende i prezzi, meglio così. Ci trasciniamo dal terminal B al C, lungo un paio di chilometri. Le distanze sono enormi. Un buggy elettrico si inchioda davanti a noi. Raccolgono Mater come se fosse una missione del buon mussulmano. Esprimo la mia incertezza; d’altronde eravamo registrati nel lazzaretto. Va bene che il miracolo si è compiuto, ma non volevo scompaginare i piani della sicurezza di Dubai. Stavo pensando solo a un decimo di tutti questi pensieri quando l’autista spazientito mi prende lo zaino e la borsa a mano e mi invita a salire. Con rudezza, come l’uomo che non deve chiedere mai. Salgo e parte a razzo, a momenti rotolo giù ma credo di averne combinate un bel po’ al DBX che si ricorderanno del miracolo avvenuto nella DISABLED longue (mica la Luxury o la VIP).
Povero illuso.
Così saliamo sull’altro aereo, l’immenso A380 e partiamo definitivamente per l’Italia. Questa volta la rotta è quella canonica, passando per l’Iraq, sfiorando l’Iran e Israele, puntando dritto verso Istanbul e risalendo attraverso i Balcani. Su Como, praticamente nella Bassa Comasca, più verso Varese, facciamo un ricciolo, un arzigogolo, prima di allinearci con la pista. Riesco a vedere Como, proprio davanti. Un piccolo omaggio da parte di Emirates e fine. Atterriamo sulla pista orientale, spanciando quasi, e finalmente siamo in Italia. La Tim mi invia tanti messaggi.
Ripenso a Bali, al mio Sudest asiatico, già con nostalgia. Ci infiliamo immediatamente nella corsia RMP (reduced mobility people) e siamo pronti per il nostro definitivo ritorno alla routine quotidiana.