Mi sono svegliato alle 7, e rispetto al giorno prima, il sole si intuiva in un’alba rossastra. Purtroppo, la montagna oscurava la vista, smorzando un po’ la magia del momento. Ero bello carico ad affrontare i 77 chilometri che mi avrebbero portato fuori dall’isola. Ho guidato con entusiasmo, anche se ripercorrere lo stesso tragitto dell’andata mi pesava. Curve, tornanti, paeselli e foreste: era un continuo movimento. Non c’era nessuno, traffico assente. Più mi avvicinavo a Calcide, più il paesaggio si inverdiva e gli alberi mostravano la loro migliore forma rendendo orgogliosa la macchia mediterranea.
Nella capitale, o meglio nel paesino prima, mi sono fermato per la colazione. Ho trovato sì una pasticceria, ma non c’erano le classiche brioche, solo tocchi duri di miele in varie forme. Ho capito, ma puoi mangiare una mappazza del genere? Ho preso quella che sembrava una fetta di torta, in realtà era un bloccaporta, pesante, da lasciarci la dentiera. Ne ho assaggiato un po’, poi l’ho lasciata lì. Ho trangugiato il cappuccino da un bicchierone di plastica e sono ripartito.
Ho fatto il pieno prima di rischiare di spingere la Clio. Temevo che mi mettessero il diesel. Qui la benza costa 1,800 euro. Leggermente più dell’Italia. Poco prima del ponte, nell’unico autolavaggio dell’isola, ho tolto il fango dalla parte posteriore. Sono talmente impanicato da questa Centauro che, tra le recensioni pessime su Google, sembra che facciano pagare anche la pulizia dell’auto.
Ma stiamo scherzando? Inserita una moneta da due euro, presa la lancia, l’auto è tornata bianchissima.
Mi immetto nell’autostrada numero 1, quella verso Corinto. Traffico sostenuto ma scorrevole. Nuvolaglie minacciose si addensano e in poco tempo è giù un temporalaccio, un acquazzone. Sono sconcertato. Ad Atene? Va bé, ma dura poco più di mezz’ora. Allo svincolo con la 6, la strada che porta al Venizelos, il cielo si schiarisce e in un attimo è completamente sereno. Ma dico io? Ero incredulo. Anche la casellante che mi ha chiesto 3,50 per una trentina di chilometri.
Avevo deciso di andare a Capo Sounio. Sapevo che sarebbero stati quasi 200 chilometri, ma ero venuto in Grecia per questo. Così alla fine della autostrada, praticamente all’aeroporto, ho proseguito. La Grecia rurale ha preso il sopravvento, lasciando definitivamente l’ammasso di case della periferia orientale di Atene. Gli ultimi 40 chilometri sono una chicane di passione, una serie ininterrotta di curve e controcurve. Vado piano. Il cielo è azzurrissimo e il sole splende. Non ci speravo dopo l’acquazzone.
Eccolo il tempio, a un certo punto appare in tutta la sua bellezza, con il marmo che risplende nel cielo terso. Sono commosso, come la prima volta che venni qui, nel 1987, quasi trent’anni fa, la mia prima volta in Grecia.
5 euro di biglietto e salgo. Ho solo tanti ricordi, mi interrogo sul tempo passato. Guardo il tempio nella sua interezza. Questo è il mio regalo di compleanno. Tutto il promontorio ha fascino. Non ci sono costruzioni pessime, a parte un ecomostro ai piedi della collina. Mi perdo tra le rocce lisce e i marmi. È tutto perfetto. Mi immagino Byron che veniva qui a svernare. I ricordi del liceo. Ok, basta altrimenti devo prendere le goccine di aloperidolo.
Così nel tardo pomeriggio, con il sole poco sopra le alture dell’Attica, ritorno all’albergo di due giorni fa. Cerco di passeggiare sulla spiaggia, ma il vento è particolarmente insidioso e spegne ogni entusiasmo. Mi accontento di camminare nella via principale della cittadina ma mi rendo conto che Artemide è davvero brutta.
E alla sera, alla taverna Stavros, consumo la mia moussaka. Felice come un bambino con quel sbarlozzo di porzione. Non potevo non mangiarla.