Great freedom


1949. Germania. Il giovane ebreo Franz è passato dal campo di concentramento al carcere senza soluzione di continuità. Il motivo? La sua omosessualità. Il paragrafo 175, infatti, del codice penale teutonico, reprime il suo desiderio, anche se il ragazzo non ha nessuna intenzione di sconfessarlo. Tra castighi atroci, così, silenzi alienanti, relazioni fuggevoli, celle che cambiano a seconda della gravità delle punizioni, il detenuto stringe l'unica relazione stabile con il suo compagno di cella, Viktor (Georg Friedrich), che supera le ruggini e il disprezzo di partenza, fin quando Franz scopre casualmente, nel 1969, dalla copertina di Der Spiegel che il suo essere ebreo non costituisce più reato.

Qui della “freedom” del titolo non si vede manco l’ombra. Figuriamoci quando essa è “great”. Un film cupo, dove la luce è relegata nei pochi fotogrammi illuminati dalla lampada di una cineproiettore. Non c’è nessuna speranza per questo personaggio rinchiuso in un carcere di cui non sappiamo nulla. Riuscirà a salvare gli altri ma non se stesso.