Il mio trentennale del 118
Io sono il 118, noi tutti siamo il 118. Ho inserito una frase simile nel filmatino che ho creato per il video di intro dei festeggiamenti. Ho mancato il trentennale per esigenze che non dipendevano da me. D’altronde che cosa avrei dovuto fare?
Comunque, partire per le zone di guerra è anch’esso ricordare l’occorrenza magari in maniera diversa dalla gioia di una festa ma pur sempre una celebrazione. Ecco, sono qui, fiero del mio 118, fiero dei miei 30 anni passati ininterrottamente nel dipartimento d’emergenza.
Io e i miei colleghi medici territoriali, che non sono stati menzionati da nessuna parte, la cui mancanza mi rattrista parecchio, nonostante le mie raccomandazioni, perché noi abbiamo fatto partire il 118, siamo stati il cardine di questo nuovo modo di interpretare l’emergenza sanitaria.
Ricordo…
Ancora il primo servizio a Valbrona, uno scompenso cardiaco. Avevo parlato al telefono con Tiziana, grandissima infermiera che aveva militato per tanti anni, la cui voce era riconoscibilissima e rassicurante per tutti. Parlavi con lei, ogni servizio anche il più ostico, diventava lieve, praticamente una passeggiata.
La prima Centrale Operativa, dietro la neurologia del Sant’Anna, sul quale gravava un grosso pino marittimo che da un momento all’altro voleva schiantarsi sul container. Ricordo la prima saletta minuscola, dove la cosa più importante erano i due cartelloni nei quali inserivi le schede delle ambulanze. Se ne partiva una, si prendeva il relativo biglietto e lo si posizionava nella corrispondente fessura del tabellone delle partenze. Quando guardavi i due tabelloni avevi immediatamente il colpo d’occhio di quante ambulanze ci fossero fuori.
Poi la centrale fu trasferita nella sala attigua, più spaziosa, senza tabelloni. Il programma informatico faceva la sua parte.
Quando entravi nell’hangar dovevi camminare sul rumoroso pavimento flottante, sentivi da lontano se c’era qualcuno. Percorrevi il corridoio stretto, subito a destra la sala riunioni, poi la segreteria e la sala del capo. Alcuni locali tecnici e alla fine, in fondo, dopo un percorso ritorto su sé stesso, entravi nella sala protetta da un portone spesso che pesava un accidente.
L’elicottero che tagliava in due la Napoleona ad altezze particolarmente basse e si adagiava con non poca levità nella piazzola dopo aver fatto tremare tutte le finestre dei padiglioni.
Poi, il piano di emergenza, preparato in occasione dell’arrivo del Papa nella piana di Lazzago, con sede alla Magistri, che ha segnato un punto fermo sulla consapevolezza delle nostre capacità.
A seguire le mitiche esercitazioni, in cui tutta la popolazione era emotivamente coinvolta e i volontari di qualsiasi croce facevano squadra e iniziavano a conoscersi tra realtà diverse.
Il trasferimento del Sant’Anna, momento storico per il 118 e per l’intera Provincia di Como. Tutto era così perfetto e gioioso. L’allora pacioccona direttrice sanitaria, era ferma alla porta carraia, e dirigeva il traffico delle ambulanze nell’angusta Via Colonna.
E i due delitti che hanno scosso la sonnolenta realtà locale: hanno avuto un’eco così devastante su di noi e sulla nostra psicologia che si era sentita la necessità di fare un congresso -Dopo la Sirena il Silenzio- all’Elmepe dove tutti noi abbiamo fatto una seduta di counseling psicologico.
In particolare, ricordo la morte di uno dei due ragazzi, annegato nel Lambro, una bravata. Avevo attivato anche l’elicottero, che ai tempi, si alzava in circostanze davvero eccezionali. Temevo che il capo mi cazziasse ma lui era arrivato quando erano presenti i giornalisti e la stampa e tutto filò liscio. Mi tolsi il giubbino arancione per scaldare il corpo del sopravvissuto. Non c’erano ancora le metalline.
Il primo volo notturno, proprio la prima notte, nella quale il “piccione” si è alzato in volo nella stretta valle del Cosia dove una signora giurava che era caduto qualcosa. Quell’operazione di perlustrazione l’abbiamo vissuto con particolare apprensione. Era la prima volta che l’elicottero si alzava con i visori notturni. Quasi quasi trattenevamo il respiro per non disturbare il rumore sovrastante dei rotori.
Li ho vissuti a uno a uno gli anni, questi 30 di 118. Dal 1994 fino ad oggi. Ho vissuto momenti belli, altri meno, ma importanti, che mi hanno forgiato e segnato la mia vita.
Il Genovese è sempre stato uno stronzo, pazzo, da non farlo incazzare, alcune associazioni mi odiavano, altre no. Ma se c’era una emergenza, il Genovese ti tirava fuori. Comunque, in ogni caso.
Non mi sono mai curato dei giudizi, sono sempre stato me stesso e questo a volte mi ha creato dei problemi (soprattutto per le mie ingerenze caratteriali) ma la stragrande maggioranza dei volontari e degli infermieri coi quali mi confrontavo si fidava di me. Non ho mai voluto tirarmela, non ho mai voluto che mi si chiamasse dottore, ho sopportato con non malcelata insofferenza la divisa, ho mandato a quel paese chi mi si rivolgeva con saccenza e senza titoli.
Nell’emergenza, non mi sono mai scomposto. Bastava fare un passo indietro, guardare con lucidità e pensare a cosa fare.
Sono trent’anni, vissuti non proprio del tutto serenamente per problemi miei personali che lungo il tempo ho cercato di gestire. Ma ho cercato di fare del mio meglio, anche se a volte non ci sono riuscito. Ho però salvato tante vite, quando ci riuscivo. Ricordo i volti sgomenti dei parenti delle vittime sulle quali ho praticato le manovre di rianimazione. Non ho mai nascosto le reali condizioni e con poco tatto sono sempre stato onesto e a volte brutale.
Ma almeno sono qui, più saggio, molto più tranquillo, con lo stesso entusiasmo con i quali ho vissuto questi anni di emergenza. Nel mio intimo sicuramente dovrò fare un esame di coscienza ma sono orgoglioso della mia vita vissuta a livello professionale.
Auguro al 118 altrettanti 30 anni di progressione e miglioramento.