fuori dal cielo
di Giacomo Battiato
Luisa studia medicina. È francese di padre italiano. Quando l’ho vista era in mezzo alla strada.
Io ero in sella alla moto, dopo sette ore di guida ininterrotta. Venivo da un bosco nel Tirolo, il bosco di Naturno, dove si era conclusa una dolorosissima vicenda. Non avevo pensieri, non avevo emozioni; mancavano pochi minuti per raggiungere casa: volevo chiudere gli occhi, dormire. Invece l’apparizione del volto di Luisa, sembianza confusa attraverso il vetro del casco pieno di moscerini spiaccicati, mi ha abbagliato.
Il primissimo sguardo posato su di lei ha fissato immagini imprecise e mi è parso che un segreto si svelasse. Quella luce è durata un istante perché subito ho dimenticato, restando con la curiosità del mistero disvelato e immediatamente perduto.
Lei era dunque nel bel mezzo della via, tra automobili che lasciavano strisce di colore, e il suo sguardo {solo quello ho visto, non il corpo) mi ha fermato. Per la frenata la moto ha sbandato, scivolando di traverso sull’asfalto. Non sono caduto.
Luisa si è voltata. Le belle labbra, larghe e pallide, hanno sorriso. I suoi occhi, grandi specchi. La mia timidezza, in quel momento, mi ha trasformato in una farfalla nel senso che ero leggero e tendevo a volare via. Non parlavo, mi sentivo staccare, per levità, dal sellino della moto.
Il buio, il vento e il dolore dell’esperienza vissuta la notte precedente nel bosco di Naturno si sono trasformati in un’emozione di valore contrario talmente forte che mi è parso di avere perduto, insieme al peso, anche la lingua. Invece non è stato così perché Luisa si è trovata seduta sul sellino dietro di me, aggrappata alla mia giacca: la stavo accompagnando all’università, era in ritardo alla lezione. Non ricordo assolutamente le nostre prime parole, quali banalità, come sia avvenuto che: «… Luisa e tu?» «Guido. Dove vai?» Oppure: «… Guido e tu?» «Luisa. Dove vai?»
Quando la lama del bisturi taglia la pelle, dall’ombelico alla base del collo, e il corpo si apre, perdio, con un uomo non è come con un pesce, un pollo o un coniglio, è terribile.
«Tieni, prendi. Così facevano i grandi pittori!» dice Luisa sorridendo e spingendomi davanti un foglio bianco e una matita.
Invece di risponderle, grido:
«Ma quella è una sega!»
«Ssst!»
Luisa sorride ancora.
La sega rompe il torace lungo lo sterno, poi il divaricatore fa il resto e il petto del cadavere si apre come una gabbia. Eppure non è un pollo. È un uomo, né giovane né vecchio, potrebbe essere mio padre. Rimango annichilito dal rumore dei polmoni resecati e succhiati fuori, rumore acquoso, il suono delle ventose di un polpo staccato dalla roccia. Dopo i polmoni toccherà al cervello.
Luisa mi guarda di traverso e sorride.
«Non è stata una buona idea eh?» mi chiede sottovoce riferendosi a quando mi ha invitato a entrare in aula assieme a lei.
«Certo…» vorrei dirle «… avresti potuto studiare danza: mi troverei ora in una sala invasa dalla musica, con belle ragazze che ballano, tu tra tutte la più splendente; i vostri profumi mi provocherebbero un piacevole stordimento. Invece tu studi anatomia e io annuso l’odore del cadavere».
Non sa, Luisa, non saprà mai che lo spettacolo che stanno mettendo in scena su un tavolo di marmo nell’Istituto di Anatomia Patologica è per me intollerabile. Gli studenti attorno a me, più che attratti dal senso scientifico dell’operazione, mi paiono bambini di fronte a un film dell’orrore, eccitati da una curiosità primitiva. Per me invece, con ancora negli occhi le immagini vedute nei giorni che precedono questo momento, lo spettacolo è soltanto atroce. Eppure non scappo e non grido. Non devo però accettare pensieri e ricordi, altrimenti divento matto. Chiudi gli occhi, Guido!
Li riapro su un quadro che ho studiato e nel quale la scena reale si specchia; è il frammento di una grande tela di Rembrandt chiamata La lezione di anatomia del dottor Deyman. Non si tratta del quadro notissimo dovunque riprodotto che rappresenta la lezione del dottor Tulp, no, è un’opera poco conosciuta e in parte bruciata. In un incendio si è persa la sezione superiore della tela, quella che mostrava il volto del dottor Jan Deyman, Praelector Anatomiae della gilda chirurgica di Amsterdam, intento a spiegare ai suoi esimi colleghi i meccanismi della macchina umana. Anche i volti dei «dottori» sono bruciati insieme alle candide gorgiere, agli abiti neri, ai cappelli a tuba. Che sguardi avevano? Superbi come volessero intendere: noi siamo vivi, belli, importanti perché sappiamo come funziona questa macchina e la nostra scienza ci rende immortali e immuni dai mali che analizziamo? O invece angustiati dalle irrisolte domande di carne che avevano davanti? li fuoco si è portato via la loro immagine. E, con essa, la loro immortalità. Se il dottor Jan Deyman, certamente gonfio di orgoglio, avesse saputo della minaccia delle fiamme sulla sua effigie avrebbe versato lacrime amare. Di lui sono rimaste sulla tela soltanto le mani. Il dottore ricevette, come compenso per quelle lezioni, sei cucchiai d’argento del valore di 31 fiorini e 19 stuiver. Magra consolazione per il destino che ha impedito eterno riconoscimento al suo volto, quel medesimo destino che si è divertito a salvare, nel quadro, il cadavere sventrato e col cranio scoperchiato dipinto frontalmente allo spettatore cui mostra le piante dei piedi. Si tratta di un giovane fiammingo, bello, forte, i baffi biondi. Ha un nome: si chiamava Joris Fontejin ed era nativo di Diest. Joris era stato impiccato e concesso, dagli onorevoli signori della Corte di giustizia, come esemplare anatomico. Joris era colpevole di aver estratto un coltello nel corso di una rapina. Estratto? Bastava estrarre un coltello per essere impiccati? Nei registri non è detto che l’abbia infilato nel cuore di qualcuno, il coltello.
«Ma perché l’hai tirato fuori, quel coltello? Invece di odorare, nelle taverne, la vinaccia e le puttane, o il pesce sui canali tra le nebbie dell’alba, o nei boschi i funghi tra il muschio, sei finito lì, con quel gigantesco buco in mezzo al corpo e il cervello che ti cade sulle spalle… Joris Fontejin! È con te che parlo, sei diventato famoso in eterno in quella posizione così sconveniente!»
Il profilo di Luisa accanto a me, attenta alla lezione, dimentica di me, osserva il cadavere vero, in una luce fredda, lattiginosa e crudele. Lei non vede i toni caldi, i bruni e i dorati delle ruvide pennellate di Rembrandt, non vede le meraviglie dei colori, delle vernici, degli olii mescolati attraverso i quali io fuggo dall’orrore della scena.
Cerco di non udire le disquisizioni del patologo e fisso la mano di Luisa, piccola, con dita lunghe e sottili, abbandonata sul banco. La luce che cade sulla sua pelle, sulle unghie, sui tendini e sulle vene trasparenti sembra ammorbidirsi e riscaldarsi e mi chiedo se quella mano sia di Luisa o di Gysbrecht Matthijsz Calcoen, la seconda figura del quadro sopravvissuta all’incendio, il giovane e femmineo assistente del dottor Deyman. Calcoen ha un’aria furba e attenta, tiene la mano destra appoggiata a un fianco con l’esterno del polso, forse c’è del sangue sulla mano e non vuole sporcare il vestito oppure è l’abitudine a una postura elegante studiata per sedurre le signore. Con la sinistra regge la calotta cranica di Joris segata per bene, in sezione longitudinale, la regge come fosse un mezzo cocco o una coppa di gelato. Guarda dentro alla testa scoperchiata. Che pensa? Al nessun senso che hanno per lui quelle volute che si intrecciano…? O si domanda invece come cacchio faccia quella materia biancastra a contenere conoscenza e memoria e passioni? O ragiona con me sulla stupidità del destino di Joris?
«Cissà?»
«Cosa?» È Luisa, sottovoce.
«Niente».
«Dimmi cosa vuoi sapere».
«Parlavo col cadavere».
«Scemo! »
«Non quello, un altro!»
«Sssst!»
Beh, qui, ora, questo cadavere in tutto tondo è davvero un’altra cosa. La notte scorsa, nel bosco di Naturno, mi è apparso un personaggio delle paure dell’infanzia, il Rugginoso che vive nel fondo del lago e comanda la vita e la morte. È salito dalle acque verdi e immote, teneva in braccio il cadavere di una giovane donna, Leonora, mia sorella.
Comincio a disegnare sul foglio bianco: il ventre aperto, le pinze che sollevano gli strati superiori della pelle, il polmone malato messo a nudo e le volute del cervello e, in quel punto, la mano guantata del professore, novello Deyman in camice bianco e senza tuba, che indica la macchia bruna, macchia tumescente, dura, il cancro. Sua Maestà il Cancro.
Lo disegno, la matita graffia veloce la carta. Luisa sbircia:
«Bravo!»
«Il cadavere, chi è?» dico io.
«Ssst!»
Qui il cadavere non ha nome, non diventerà famoso in eterno, come è accaduto a Joris perché quel giorno, 29 gennaio 1656, Rembrandt era presente nella Sala Anatomica. Oggi ci sono soltanto io che lo sto schizzando su un foglio di carta che (il morto non si faccia illusioni) finirà nella spazzatura.
Mi chiedo se l’anonimo cadavere sia per caso un architetto fallito. Sono tentato di assimilarlo a mio padre; forse, mi dico, anche l’ex che è ora cadavere aveva sognato di riprogettare città, ha sognato scale essenziali {misurate dal compasso del passo) che conducono al paradiso. Ha sognato gli applausi. Mio padre li ha avuti, lui invece è finito qui, nudo davanti a cento studenti, oggetto di universitaria macelleria. Joris almeno faceva le rapine, aveva un bel coltello, è stato sciocco a tirarlo fuori nel momento sbagliato ma fino a quel gesto imprudente è probabile che si sia goduto la vita. Questo poveraccio no: il grigiore dei suoi giorni l’ha condotto fino a qui, aperto davanti a tutti, nudo, con un nudo tumore mostrato agli studenti che si avvicinano, in fila; poi verrà sezionato, il Cancro, in tante fettine perché ciascuno al microscopio se lo possa gustare. Sfortunato in vita lo sconosciuto, e sfortunatissimo in morte. Amen.
Passo il disegno a Luisa, con dedica: «da Guido. La morte vinta dai tuoi occhi».
Quando ho scritto «i tuoi occhi» ho temuto che il professore li tirasse fuori, al cadavere, dalle orbite, con un cucchiaio. Invece si è dilungato per un’ora a disquisire sul carcinoma.
Il pezzo di carne ghiacciata restava lì, aperto, non ancora troppo maleodorante; più forte era l’odore della formalina. Il cadavere, nudo sul marmo, paziente, in attesa: «non c’è fretta, seppellitemi quando vi fa comodo,» diceva, «intanto penso alla donna che ho amato». Perché ne avrà amata qualcuna, qualcuna gli avrà carezzato i capelli, una almeno!
Lo guardavo senza più orrore. Fissavo il suo pene, appoggiato su un lato tra una coscia e lo scroto, in mezzo ai peli ancora neri, e mi aspettavo che si muovesse, speravo di cogliere un movimento, anche solo un tremore appena percettibile.
Il mio si è mosso e non me ne accorgevo neppure. Con una naturale armonia ha cercato e trovato la strada. Per la prima volta, abbracciato a una donna, non sentivo i confini tra il mio corpo e il suo. Corpi fusi. Ricordo che ho pensato di essere un altro; chi fosse questo «altro», se una macchia di colore o io in carne e ossa e non riflesso in un vetro, non lo sapevo e non potrei dirlo.
Uscito dalla tragedia che si era conclusa nel bosco di Naturno sognavo che mi venisse restituito quanto era stato tolto. Ma subito quella speranza veniva annullata perché, a causa di quello che era accaduto, non potevo meritare niente di buono. Mi stringevo allora a Luisa con più forza e scomparivano colpe e pensieri. Lei pareva malata d’amore: tremava, aveva i brividi come per una febbre improvvisa, era accesa in volto, sudata, e mi fissava con una dolorosa intensità. Ho dimenticato il cadavere nudo sul marmo. Ho dimenticato il bosco di Naturno. Ho dimenticato gli occhi neri di Leonora, la mia gemella, quando mi ha cacciato dalla sua stanza, per sempre.