il mondo senza di me
di Marco Mancassola
(42)
Salgo sul tram. Resto in piedi e quando riparte, mi aggrappo al corrimano. Dai finestrini guardo fuori la gente camminare al sole. Le loro mani in tasca ei colletti sollevati. E’ vero, anche qui sta venendo il freddo. Perché non dovrebbe, siamo così a nord. Finché resiste il sole non ci faremo caso, perché il sole fa pensare che tutto vada bene e che l’autunno dolce continui, come una versione tiepida dell’estate. Incrocio lo sguardo di una donna seduta e ho l’impressione che lei capisca. Alle mie spalle c’è il freddo e questo freddo mi insegue, chi mi aiuterà? La donna ha capelli biondo sporco e occhiaie segnate, come dopo una notte insonne. Continuiamo a guardarci finché mi rendo conto. Ha occhi così chiari che è impossibile non vederci dentro, non vedere il suo ghiaccio ancora più duro, più doloroso del mio. Distolgo lo sguardo con un senso di spavento. Anche questo signore anziano ha occhi stanchi, come di qualcuno che ha passato la vita a fuggire, a precedere di appena una passo la bufera, il ghiaccio, l’inverno freddo da cui non c’è riparo. E uguali sono gli occhi dell’autista, che vedo riflessi nello specchio in alto, sopra il parabrezza. Perché non riesco a muovere il mio sguardo senza incrociare quello di qualcun altro? Guardo fuori ma anche sul marciapiede c’è gente che muove la testa, gira lo sguardo, cerca i miei occhi. Gli altri mi chiamano, ma io non so rispondere. Il tram fa una lunga curva e mi sembra di perdere l’equilibrio, mi aggrappo più forte, per un attimo ho le vertigini come dopo un girotondo. Potrei lasciarmi andare. Cadere in ginocchio e domandare perdono. Finora ho chiesto a molti di vedere la mia solitudine, ma non ho mai visto quella degli altri. Non esiste il mio solo malessere ma un dolore più esteso, profondo che unisce le persone l’una all’altra come i segmenti di una lunga cicatrice. Questo dolore chiede di essere ascoltato, compreso nel suo intero, da me che ne soffre una parte. Forse perché la mia parte è ancora piccola e in me c’è altro posto, ulteriore resistenza. Capisco che il dolore è un peso che va diviso, a seconda della nostra forza. Se io fossi giusto dovrei offrirmi, aiutare chi più stremato. Ma non credo di essere giusto. Conosco queste parole: giustizia, comprendere, condividere, ma non so esattamente il loro significato, non so a quali atti esse corrispondano. Forse a nessun atto ma a inutili teorie. O forse ad atti che sono troppo coraggiosi perché io li possa immaginare. Intuisco che l’altruismo debba passare attraverso il sacrificio, ma il pensiero del sacrificio mi provoca un’istintiva ribellione. Il miraggio della mia felicità personale è ancora troppo vicino. Essere arrivato a un passo da questa felicità mi fa desiderare, con gli stessi mezzi, un nuovo tentativo, come uno scalatore scivolato giù dalla montagna che si rialza, tutto ammaccato, e riprende da capo la scalata. Rinunciare a questi mezzi? il tempo libero, i miei pochi soldi, i miei oggetti, la possibilità del divertimento, la speranza di incontrare un nuovo amore e del divertimento. Rinunciare a questi mezzi sarebbe come abbandonare la strada conosciuta per imboccarne un’altra nuova e rischiosa.
Questo dolore chiede di essere ascoltato. Una frase bellissima che mette in evidenzia che noi non siamo soli con il nostro dolore, ma c’è il mondo intero che ci circonda. La solitudine del protagonista si riflette negli occhi degli altri da cui si intravede un mare che si espande senza confini…