mirko polkan

di Marco Papa


C’era una ragazza, alla finestra. Non proprio alla finestra. Stava dietro la finestra. Impossibile distinguere qualcosa con chiarezza viso, mano, profilo tra le stecche della serranda abbassata fin giù. Forse non era nemmeno una ragazza. Qualcuno, sì, c’era, là dietro.

Con tutta la forza della memoria, dal marciapiede di fronte, cercavo nel frattempo di far apparire il suo viso, almeno, agli occhi della mente, di ricostruire con tessere sparse il suo identikit. Ma senza successo: i tratti del suo volto non mi si volevano rivelare. Soltanto del suo sorriso avevo un’impressione. O meglio, avevo un’impressione dell’impressione ricevuta, di un certo calore sparpagliato dentro. E di due dentini leggermente separati tra loro… Troppo poco per saziare la mia ansia recente.

E dire che conoscevo il suo nome e il suo indirizzo! Non ero forse, come ho detto, davanti a casa sua? Non guardavo in direzione di quella che, secondo certi calcoli e ipotesi fatti trovando il suo nome sul citofono e il numero dell’interno, presumibilmente era la sua finestra?

L’avevo conosciuta durante una gita scolastica. Della gita ricordavo: il pullman bloccato per un guasto, in alta montagna, tra due pareti di neve spalata, e il caldo divorante del ritorno attraverso una pianura che costeggiava il mare. Sotto quel sole rovente di giugno inoltrato, durante una sosta all’autogrill, costruito su un ponte sovrastante l’autostrada, lei aveva mangiato un cotechino. La sua scelta mi aveva colpito. Ma non ricordavo niente del volto, della voce, della corporatura. Poi si era messa a giocare a palla a volo con gli altri compagni, nel piazzale del parcheggio, dieci minuti prima che il pullman ripartisse, per non sprecare nemmeno un istante della vacanza. Portava un maglione blu legato con le maniche intorno alla vita. Lei era quella del maglione blu e questo era l’ultimo ricordo.

Ma dovevo averci parlato, perché sapevo, l’ho detto, come si chiamava e dove abitava.

Mentre io guardavo la finestra, un bambino guardava me.

Gli feci cenno di avvicinarsi. Lui, saltellando su un piede solo come se giocasse a campana, attraversò la strada. Tirai fuori un foglietto dal portafoglio e ci scrissi sopra il mio nome, accompagnato dalle parole:”Ti ricordi di me?”. Chiesi al ragazzo di recapitare il messaggio, gli dissi il piano e l’interno che, stando alle mie supposizioni, corrispondevano alla finestra. Lui, intascata una piccola mancia, ovvero tutto il denaro che avevo con me, riattraversò la strada saltellando e lo vidi accostarsi deciso al citofono e suonare.
Ritornò con una fotografia che, disse, gli era stata consegnata per me.

Dietro c’era scritto:
“Così avrai un ricordo del mio viso. Noterai che sono abbastanza carina, che ho i capelli biondi non troppo lunghi, lo sguardo dolce.”

Stetti per un po’ a contemplare la foto, inebetito dalla mia passione adolescenziale, che non aspettava altro per tramutarsi nel vero amore. Poi mi avviai verso i giardini, dove volevo godermi in solitudine un po’ del nuovo inaspettato sentimento. Mi accorsi che il bambino mi trotterellava dietro.

“Che cosa vuoi? ” gli dissi, con tono seccato, fermandomi all’improvviso.

“Non vedi che mi sto innamorando?”

“Sì, sì, lo vedo” disse lui, saltellando da un piede all’altro, “ti sei innamorato di una ragazza che non ti ricambierà.”

“Chi ti ha chiesto un parere?” feci io. “Chi ti autorizza a prenderti tanta confidenza?”

“L’ho guardata bene, sai” disse lui, “quando mi ha consegnato la foto. Aveva una vera e propria cattiveria dentro gli occhi. Certo, li, nella foto, non si vede. Ma è una foto vecchia: sarà di centomila anni fa. Se vuoi, ti cerco io una brava fidanzata, una veramente adatta a te. Quanti anni hai?”

“Sedici” risposi. “E tu?”

“Una trentina” disse il bambino.

Ai giardini, si sedette su una panchina e mi invitò a sedermi accanto a lui. Infilò la mano in tasca, tirò fuori un pacchetto e mi offrì
una sigaretta. La accese sfregando un fiammifero, l’unico che aveva, sulla suola della scarpa. Dopodiché me la ficcò tra le labbra e mi guardò soddisfatto tirare la prima boccata.

L ‘aria di settembre era serena, la luce tiepida e radente, mi sentivo tranquillo.

Dentro il mio pensiero d’amore, mi piaceva fumare. Intanto il bambino incideva il suo nome, Mirko Polkan, con un temperino, sullo schienale della panchina. Poi se ne stette ad annoiarsi seguendo con lo sguardo le formiche che si affaticavano in mezzo alla ghiaia.

“Andiamo al cimitero, a disseppellire un arcivescovo?” disse ad un tratto, dopo essersi a lungo annoiato.

“Dove hai letto queste cose?” gli chiesi, stupito che potesse maturare simili propositi.

“Da nessuna parte” rispose, facendo spallucce.

“lo leggo pochissimo. Preferisco l’azione. E nell’azione, magari, trovare la morte. La storia dell’arcivescovo l’ho vista al cinema. C’erano dei ragazzi che, al seguito di Gian Bardùlo, andavano a disseppellire un arcivescovo e gli facevano la festa.”

“Gian Bardùlo?” dissi.

“Sì, Gian Bardùlo, il comandante” disse Mirko, con un lampo negli occhi.

“E gli facevano la festa?”

Mirko annuì, muovendo la testa su e giù un paio di volte, con aria seria e perfino compunta.

“In che senso, la festa?”

“In quel senso li. ..Come dite, voi?”

“Sessuale?”

“Ecco, sì: sessuale!”

“A un morto?” dissi.

“Proprio così, sissignore, proprio così! ” ribadì il bambino, lasciando la compunzione e cominciando a ridere tutto eccitato.

A me pure veniva da ridere. Cercai di trattenermi inutilmente. E lui rideva ancora di più vedendo me ridere, e io ridevo di rimando, finché il riso comune ci costrinse a rotolarci giù dalla panchina, sulla ghiaia, dove cominciammo una lotta fra le risa più convulse, come porci in brago.

Alla fine eravamo così stanchi che cascammo addormentati. Le buffonate di Mirko avevano avuto il potere di distrarmi dal mio pensiero d’amore.

Mi svegliai prima di lui. Mi misi subito a cercare la fotografia. Non la trovavo più. Guardai nelle tasche dei pantaloni, compresa quella posteriore, dopo aver controllato se l’avevo nel portafoglio. Dove l’avevo lasciata? Non lo ricordavo più. Quand’è che l’avevo abbandonata? Come avevo potuto essere così sciocco e così poco riguardoso nei confronti della fanciulla che amavo?

Disperato, perlustrai le vicinanze, compresa la panchina, sopra e sotto. Guardai in mezzo all’erba, fra i cespugli, nelle cavità e tra le radici degli alberi.

Con le mani smossi il terriccio seminando il panico tra le formiche. Soltanto dopo molto tempo, quando ormai il mondo era pronto a spararmi nel pozzo oscuro dell’indegnità, ebbi l’idea di perquisire Mirko, ancora sognante e ronfante.

Trovai la foto che spuntava dai pantaloni, tra canottiera e maglietta.

Non era nemmeno un po’ sgualcita. Un vero miracolo, se si pensava che era finita lì probabilmente in seguito alla lotta.

Non stetti a farmi altre domande. Ripresi subito la fotografia e restai a contemplare la dolce immagine: ma mi sembrò che lei mi sorridesse con aria beffarda e un po’ lontana, irraggiungibile, come di una che non mi avrebbe mai voluto. Ero lì, in piedi, con la foto tra le mani, la passavo da una mano all’altra, e quasi pregavo che cambiasse espressione, come una figurina animata, che all’improvviso i suoi occhi mostrassero uno sguardo più accogliente, quando mi sentii toccare la spalla. Mi voltai: era un vigile urbano. Mi indicò severamente il bambino ed io capii che non potevamo più restare lì. Allora, mentre il vigile si allontanava, diedi uno strattone a Mirko, che spalancò gli occhi di soprassalto, spaventato. Ancora semiavvolto nel sonno, sulle prime sembrava non riconoscermi.

“Ah sì” disse dopo un po’, stropicciandosi le palpebre, “sei l’innamorato” e sbadigliò senza ritegno. “Che fame! Hai qualche soldo?”

“No, niente” dissi, desolato. Guardai nel portafoglio, ma così, per scrupolo. “Quel poco che avevo te l’ho dato prima, in cambio della commissione. Ma dovrebbe bastarti per comperarti almeno un panino.”

Mirko mi guardò come se fossi diventato matto. Non aveva più quei soldi, spiegò: ci aveva pagato la foto alla ragazza, era lei ad averli
intascati.
Come, pagato? Come, intascati? Gli mollai un ceffone: “Hai fatto questo e non mi hai detto niente! Mi hai fatto credere…”.

Mirko scoppiò in lacrime.

“Maledetto imbroglione!” gridai, fuori di me, trattenendomi a stento dal mettergli di nuovo, subito, le mani addosso.

Mirko, asciugandosi le lacrime con il polso, mugolò che si trattava, in fondo, di una stupidella, di una sulla quale davvero non si sarebbe potuto contare, che lui si era comportato così nient’altro che per il mio bene, per non lasciarmi a bocca asciutta, e che io mi stavo dimostrando un vero ingrato. A questo punto nulla più mi trattenne: gli allungai due di quegli schiaffi che a momenti gli staccavano la faccia.

Allora Mirko esplose, gonfio di rabbia: “Vuoi saperla tutta? La ragazza non esiste! La fotografia ritrae mia sorella, e le parole dietro ce le ho scritte io, solo io, con le mie proprie mani, per farti contento e perché tu riprendessi serenamente i tuoi studi. Dovresti essermi grato, dovresti. I quattrini se li è presi mia sorella, naturalmente. E se tu non ci credi, io me ne frego!”.

A sentire simili improntitudini, lo afferrai per un braccio, lo tirai su e gli affibbiai due calci in culo. “Cammina” gli ordinai, e a forza di calci lo feci marciare davanti a me, riempiendolo d’insulti. Ero furioso. La ragione mi aveva abbandonato. Pensavo al modo migliore di punirlo.

Attraversammo la città tra pugni e maledizioni, guardati dalla gente stupefatta, che non aveva il coraggio di fermarci. Passammo gli obelischi e le rovine del centro, il corso popolato di ragazzi rivestiti tutti uniformemente di tela azzurra, costeggiammo il fiume fino alla campagna, dove avevo intenzione di abbandonarlo come il peggiore dei cani per fargli passare la notte all’addiaccio, come meritava un traditore di quella fatta.

Mirko piangeva e guaiva: “Ho fame! Ho fame!”

Ci fermammo, e lui continuava a lamentarsi. Con una mano si massaggiava il culo e la schiena, con l’altra il collo e le spalle.

Mosso a compassione, avevo smesso di maltrattarlo. Lo guardavo tremare, ora, nel freddo della sera che diventava notte.

“Ho fame, ho fame” ripeteva Mirko, instancabile, a testa china.

Gli asciugai le lacrime con il fazzoletto.

“Vediamo se riesco a darti qualcosa” dissi.

Mi sbottonai i pantaloni. Accarezzandolo dolcemente sulla nuca, gli diedi il mio sesso da poppare,sperando di aver latte sufficiente a placarlo.

Il bambino cominciò a succhiare con impegno: il suo sguardo si rischiarava, e quasi rischiarava anche la notte, via via che lo stomaco si riempiva di latte.

Ero contento di aiutarlo, ora, di averlo lì,sotto di me, quasi come un figlio mio.

Quando staccò le labbra, mi girava la testa. Dovetti sedermi sull’erba umida.

Mirko saltellava da un piede all’altro. lo guardavo dalla parte più buia della campagna. Pensavo a quella ragazza, a quel mio ricordo (o un’invenzione?), alla sua voglia di cotechino, alla sua finestra, alla fotografia con cui ero stato gabbato, a tutte le cose che accadono e che non sono accadute. Eppure potevo riconoscerla, ormai, se volevo, dovunque: anche in una macchia su un muro.


There was a girl at the window. Or, not exactly. She was behind the window. I couldn’t make anything out for sure through the slats of the shutters. Maybe it wasn’t her. Or maybe it wasn’t even a girl. With all the strength of my memory, I tried to make her appear, to reconstruct her face, piece by piece.

Among the few precise things I was able to recall about her, at that moment, was a prank: I remembered that she had eaten a piece of hot sausage, in the middle of June, during a trip (a school outing that I also took part in), while stopped at some fast food place on the highway. And then I remembered I’d seen her running and playing ball with the others (she always wore a blue sweater with the sleeves tied around her waist).

I knew her name and address, but I couldn’t get her face straight in my head. I only had one impression, of her smile, but it was a nebulous impression. Still, I was certain that that was the window, and that, behind it, she might be there.

I wrote my name on a little piece of paper, along with the words: “Do you remember me?” I stopped some kid and had him deliver it.
The boy, pocketing a small tip, went and brought it up. When he came back, he had a photograph to give me. On the back of the picture was written: “So you’ll have a souvenir of my face. As you can see I’m fairly pretty, I have blonde hair that’s not too long, gentle eyes.”

I stood for a little while to look at the photo, dazed by my adolescence. Then I started off towards the park, to revel a bit in this new, unexpected feeling. I didn’t notice that the boy was tagging along behind me.

“What do you want?” I said, a little irritated. “Can’t you see I’’min love?”

“Sure, I can see, I can see. You’re in love, with a girl who won’t ever love you back. You know, I took a good look at her, when she handed me that picture: she’s nothing but a tease, I could see it in her eyes. Sure, you can’t tell from the picture. But it’s old: she probably took it a hundred years ago. If you want, I’ll go find you a nice girlfriend. . . . How old are you?”

“Sixteen,” I said to him, “and you?”

“About thirty or so,” the boy said. He sat down on a bench and invited me to sit down next to him, offering me a cigarette.

The September air was clear, I was in a tranquil mood. Behind my thoughts of love, the cigarette tasted good.

The boy cut his name into the bench: Mirko Polkan.

“You want to go dig up an archbishop?” he said, after getting a little bored.

“Where the heck did you read that?” I asked him.

“Nowhere,” he said. “I hardly ever read. I like action better, big action, the kind where you come face to face with death. I saw the thing with the archbishop at the show. There were these kids who went and dug an archbishop out of his grave and they screwed him.”

“What do you mean, screwed him?”

“Just what you mean too.”

“And he was dead?”

“That’s right! That’s right!” the boy exclaimed, laughing himself silly. I started to laugh too. We laughed till we rolled off the bench, onto the gravel, where we began wrestling and rolling around, with one burst of convulsive laughter after another. We seemed like a couple of puppies. Finally, we were so tired that we fell asleep. Mirko’s prankishness had the power to distract me from my thoughts of love.

I woke up before he did. It was almost dark. I immediately took out the girl’s photograph: she was smiling at me with a somewhat mocking and distant air, like someone unreachable, who would never love me.

A cop came by, to say there was no loitering there. So I gave Mirko a shake, and he woke up almost frightened: still half asleep, he didn’t seem to recognize me. “Oh, that’s right!” he said, after rubbing his eyes a little. “You’re the one who’s in love. Am I hungry! Have you got any money?”

“No, not a nickel. I didn’t have much to start with, and I gave it all to you for delivering that note. You should be able to buy yourself a sandwich with it at least.”

Mirko Polkan looked at me as if I’d gone crazy. He didn’t have the money anymore, he explained. He gave it to the girl in exchange for the photograph. I smacked him in the face: “How could you do such a thing, and not say one word to me!”

Mirko started to cry, whining that it was no big deal, not at all, that he’d done it for my benefit and that I was an ingrate. I slapped him again, two times, and almost took his face off. Mirko exploded: “You want to know the whole story? There isn’t any girl! That’s a picture of my sister, and I’m the one who wrote that stuff on the back, to make you happy, so you could go back to your studies and not have to worry about anything. As for the money, my sister took it, why not? If you don’t believe me, I don’t give a damn!”

What gall he had to say such things! I gave him two kicks in the ass for it and made him march in front of me, hurling insults at him.

We entered a dirt road, where I intended to abandon him like a filthy dog. Mirko was crying and howling: “I’m hungry! I’m hungry!” half expected him to swoon away. Yes, he was hungry, really and sincerely hungry. I stopped mistreating him and dried his tears with my handkerchief.

“Let’s see if I can give you something,” I said.

I unbuttoned my pants. Caressing him softly on the back of the neck, I gave him the only thing I had, to suckle on, hoping there would be enough milk there to appease his hunger. The boy sucked attentively, his eyes brightened, as his stomach eventually filled with milk. As for me, I was happy to help him out, to have him there, beneath me, almost like a son. When he took his lips away, my head was spinning. I had to sit down.

I thought about the girl, my memory of her (or was it something I’d made up?), about all the things that happen and that haven‘t happened. But, by then, I could recognize her anywhere, if I wanted: even in a smudge on the wall.