sgobbo
di Giosuè Calaciura
Ci affacciavamo al tramonto per controllare dal balcone i vicoli del quartiere delle case d’Africa, come le condotte dell’acqua si aprono a orari concordati e lasciano defluire i clienti che vogliono scopare prima di cena perché risveglia l’appetito. Nell’attesa spingevo lo sguardo in cerca del mare perché da domani avrei affrontato le strade aperte del ficca-ficca oltre il limite della Marina, tra i vicoli del porto dove si sentono i respiri delle navi all’ormeggio che goccia a goccia versano clandestini indesiderati nascosti nei sacchi del caffè d’Arabia, nelle balle di riso indiano, nei cartoni zuccherati dei datteri. Nottetempo gli irregolari con i temperini si aprono la strada dall’interno, squarciano l’involucro ed evadono lasciandosi scivolare sulle gomene degli ormeggi. Per essere più sicuri e per sfuggire ai controlli prendono la stessa forma della mercanzia che ha ottenuto il lasciapassare delle dogane e sotto i caschi delle banane scaricate sulle banchine stiracchiano le gambe magrebini portati a maturazione dal calore della stiva e anchilosati dalla traversata, nelle casse dei bulbi orientali con l’indirizzo scientifico dell’orto botanico germogliano cinesi teneri teneri in anticipo sulla primavera, e come spore si lasciano trasportare dalla brezza dei moli i filippini leggeri delle fungaie d’importazione. Ha scavalcato il confine della Marina risalendo sino alle case d’Africa la leggenda della madre abbandonata sul molo dal figlio che s’imbarcava per sempre nel ventre del mercantile predatore e salutando addio, addio figlio malediva quelle coste flagellate dallo scirocco perenne del meridione assoluto. Quella favola ce la raccontavamo da un letto all’altro a fine servizio nell’estasi della stanchezza perché avevamo perso il conto giornaliero dei cazzi, ma sapevamo per certo che non sfuggiva un numero al pallottoliere, sottraeva gli ingressi alle uscite fino a quando tutti i conti tornavano. E ciascuna a quella favola aggiungeva un particolare di tormento affinché ci sembrasse più accettabile la comparazione col nostro destino. Con la tenacia della nostalgia la madre aveva guardato il suo stesso sangue allontanarsi sino all’orizzonte e anche oltre, al di là della curvatura terrestre che nasconde allo sguardo.
Per tre giorni era rimasta sui moli d’argilla che si scioglievano come caffè quando i venti cambiavano quadrante e lasciavano senza approdi e persino partire risultava impossibile. Per tre giorni sopportò la crudeltà della separazione. Poi, quando credette di non scorgerlo più, s’imbarcò sul cargo successivo. Nessuno la vide né s’accorse della sua presenza lamentosa.
S’aggirava per il ponte come i groppi di vento atlantico, si fermava a prua a controllare sul mare le orme della nave del figlio. Si sentiva come quell’onda che rotolava inseguendo l’onda precedente, acqua che si rompe nella stessa acqua.
E se la nave scostava dalla scia di quella rotta, lei stessa con i suoi polsi fragili di madre disfatta correggeva la ruota imponendo la sua forza al desiderio di nord-nord ovest del timoniere che informava il signor capitano dell’avaria al sistema idraulico del timone, non si riesce a governare. Furono costretti a collimare la nuova rotta d’emergenza sulla volontà della madre invisibile, sino a quando arrivarono in questo porto della Marina dove riconobbe sui moli l’odore del figlio così come l’aveva avvertito la prima volta, scoprendo nelle narici il tanfo della disgrazia di quella carne venuta al mondo per la felicità dei mercanti. Fernando, sei tu? domandava nella notte dei vicoli dove sospirano le navi all’ormeggio. Fernando, sei tu? no, sono Linda e mi faccio chiavare boccafica ventimila alla punta della cantoniera dove sfilano le volanti degli sbirri a chiedere la parcella agevolata per la forza pubblica.
Fernando, sei tu? no, sono l’arcangelo Gabriele dei finocchi, così mi incoronano mentre mi inculano nel posteriore delle automobili.
Fernando, sei tu? sì mamma, sono io, ma si sentì presa in giro da quella bionda che non riusciva a nascondere le minne sotto l’impermeabile.
E guardando meglio tra le ciocche sporche dei capelli riconobbe lo sguardo d’animale d’allevamento sgravato per il macello, e lo stesso stupore che la interrogava sin da quando lo tirò fuori a forza dalla sua pancia adagiandolo sulla lamiera arrugginita di un taxi abbandonato, sotto il rossetto riconobbe il disegno della bocca che lei stessa con l’onnipotenza delle madri aveva. abbozzato a modello della sua, riconobbe le orecchie grandi di cane bastonato sfregiate dai pendenti di frivolezza in forma di lacrime, e infine, a conferma, lo stesso odore di carne nuova nelle narici. Era lui, il figlio in vendita diventato donna come lei non era mai stata, gracile e ondeggiante sui tacchi a spillo, femmina nonostante lei lo avesse voluto maschio con tutte le sue forze perché sin dalla nascita ciascuno porta tra le gambe la forma dell’ingiustizia già scritta a stampatello nel registro di Dio, lo aveva voluto maschio prevedendolo nei quarti di luna propiziatori dove è possibile dare una sbirciata tra le carte del Padreterno, e testardamente lo partorì maschio ringraziando per quel suo cosino delicato come un germoglio e i coglioni grandi come un salvagente che lo avrebbero tenuto a galla sopra tutti i mari inquieti. Invece era affondato, come una donna che imbarcava acqua e cazzi attraverso la falla del suo buco di culo e che lui stesso aveva raddoppiato facendosi tagliare le palle con urgenza di naufragio, ombra della preda che si confondeva svanendo tra le ombre della notte con la velocità trattenuta dall’orlo della minigonna. Non si dissero altro perché sentirono troppo profonda la vergogna di riconoscersi e si persero per sempre tra i vicoli della Marina.