Sotto un cielo grigio ci siamo portati ad est di Marrakesh lungo le colline pedemontane dell’Alto Atlante. A Demnate una sosta nel vivace centro cittadino delimitato da bastioni costruiti con terra e fango, che se li urti, viene giù tutto.
La città berbera era molto carina ma non di certo rispondeva agli standard occidentali. Per cui Tiziana è scappata immediatamente, trascinandomi fuori,
Così ci siamo portati al ponte naturale di Imi n’Fri, costringendomi ad un trekking fuori programma tra le rocce scivolose, guano di piccione e dichiarazioni di amore di focosi amanti marocchini incisi sulle pietre. Con le mie scarpette mai ce l’avrei fatta a passare sotto la maestosa arcata. Un giovane berbero, Ashraf, ci ha preso in custodia e ci siamo messi letteralmente tra le sue mani e vigorose braccia, conducendoci tra le impervietà e i passaggi stretti.
Secondo lui era un pezzo facilissimo. Manco alle Hawaii ho sofferto così. Col fiatone, i polmoni collassati, le ginocchia ormai a pezzi, dopo evoluzioni che neanche Carla Fracci, siamo giunti sani e salvi alla macchina che intanto perdeva pezzi e che dovevo rimontare. Siamo ripartiti alla volta delle cascate di Ouzoud. Un posto delizioso dove fare del trekkin, ormai il fisico era molto provato così non ci siamo dilungati in peripezie dove avrei potuto davvero lasciarci la pelle. Ho ammirato delle simpatiche bertucce che si spulciavano amorevolmente.
Alla diga di Bin El Ouidane, si è incastrato un masso proprio dietro la ruota anteriore destra e la scocca. Per fortuna che ci hanno aiutato, proponendoci di alzare l’auto col crick quel tanto che bastasse per togliere la pietra, d’altronde la soluzione più facile ed evidente. Io non ci sarei mai arrivato.
E poi il ritorno verso Marrakesh, 170 km, tre ore al buio completo con pecore, pastori, ciclisti, donne e bambini non solo a bordo strada. Aiuto.
Infatti siamo giunti alla città ormai alle 22. Una sosta nella centralissima piazza di Marrakech città giusto per vedere come era fatta, ma eravamo troppo cotti, e la massa della gente tra gli ingorghi tra una calesse trainato da un mulo che si è impiantato e un numero imprecisato di roboanti motorini ci hanno fatto desistere dal rimanere oltre un minuto.
All’albergo ormai i ristoranti erano chiusi, così all’una abbiamo ordinato una cena in camera con tanto di servizio di maggiordomo. L’hotel Me”v”idien, scusate se è poco, ci può permettere di toglierci certi sfizi (che tra l’altro non era un capriccio ma stavamo veramente morendo di fame). Io mi sarei accontentato del Mc Donald della stazione a cento metri, ma al diavolo. Una cena nel giardino lussureggiante all’una di notte, ca”v”i “v”agazzi…