Arriviamo a Nairobi all’alba. Tutto è color marrone. Il cielo pure, tutto infiammato di giallo e polveroso. Distese di terra brulla a perdita d’occhio. Non riesco a capire la geografia, cerco di localizzare la città ma non trovo alcun riferimento. Atterriamo in mezzo al deserto, il vuoto cosmico, mi aspettavo da un momento all’altro che una giraffa dal finestrino mi salutasse…

Entriamo nella porta dell’Africa orientale e già subito il casino. Tutte le quattrocento persone ammassate contro le apparecchiature dei controlli. Mi chiedo che cosa devono controllare che lo hanno già fatto a Parigi e siamo appena scesi dall’aereo. Gente che ti strattona, bambini urlanti, le donne con trentamila sacchi e sacchetti, le fila un optional. Bisogna togliersi pure le scarpe e vi lascio immaginare dopo 8 ore di volo…

Mater che frega le vaschette agli altri perché sono contate e i ragazzi non osano contraddirla. Temo che parta una zuffa. Manco deve fare la spesa. Nel frattempo io con il culo in aria mentre mi sfilo le scarpe e mi trattengo i pantaloni, dopo essermi tolta la cintura, con una mano afferrante tre vaschette, cerco di stare in equilibrio precario. Sento la pressa dietro di me. Molti mi passano davanti. Faccio scorrere le mie robe sotto i raggi x. La donna al metal detector non è contenta della mia vista. E ci credo, a momenti sono in mutande. Sbuffa. Continua a suonare il coso. Mater in avanscoperta cercando di recuperare tutte le nostre cose. Giuro che non ho niente nelle tasche, non ho neanche le protesi all’anca. Vengo ispezionato da cima a fondo da un presunto poliziotto. E giù, mi palpava come se dovesse saggiare la consistenza di un pollo.

Libero finalmente, ancora cinque minuti mi sarei messo a gridare come un forsennato. Ecco, quattro ore allo Jomo Kenyatta International Airport (JKIA) il cui nome è più lungo di quanto in realtà fosse l’aeroporto. Dopo quattro minuti netti, sentivo la claustrofobia. Volevo uscire, andare in giro. C’era gente sbracata e allungata sulle chaise longue, addormentata, come se fosse da non so quanto tempo lì. Reperti da museo. I monitor evocano destinazioni esotiche.

Alle 10, ormai avevo perso ogni briciolo di ottimismo, inaspettatamente aprono il gate per Dzaoudzi. Incredibile e alle 11 siamo già sull’aereo. Ma allora qualcosa funziona…

Il volo di due ore è stato qualcosa di spettacolare. Ho visto il Kilmangiaro innevato (senza la Licia Colò), l’isola di Zanzibar, un mare turchesissimo e le Comores… Spettacolo. Pensavo di essere nello spettacolo Donnaventura. Ci hanno dato dato da mangiare un sandwich, confezionato in una scatola con su scritto Karibu. Temevo che dentro ci fosse proprio un karibu… Ormai ero suggestionato.

Arriviamo puntualissimi. Per fortuna che il comandante ci aveva avvertiti. La pista è troppo corta, dobbiamo per forza di cose fare una frenata brusca. Alla faccia! Mi sono sentito il karibu comprimersi nello stomaco e i femori sfondare gli acetaboli. Ma almeno non siamo finiti in mare. L’aeroporto è proprio affacciato sulla laguna.

Il cielo ventoso, carico di nuvoloni, aria afosa e zuccherata. Ci consegnano miracolosamente le valigie. Temevo che fossero rimaste a Parigi per il troppo poco tempo di transfer. E prendiamo la nostra vetturetta, scassatissima, arruginitissima, senza servosterzo ma almeno con quattro ruote. La renter fa la compilation delle ammaccature. Le dico che forse farebbe prima a contare le parti intatte…

E via, la Mayotte! Saliamo sul traghetto, una ragazza con la faccia pitturata mi parla in un francese-mahoriano alla velocità della luce. Inutile dire che non ci ho capito niente. Dopo due secondi netti, imbronciata, ci fa passare e temo pure che alzi un dito. Alla fine, col senno di poi, probabilmente ci chiedeva i venti euri di tragitto. Ma chi se ne frega. Siamo sulla chiatta e arriviamo a Mamoudzu…