Ieri con la gita su per le montagne sono riuscito a scamparmi la messa domenicale, quella a cui porto sempre Mater anche in quei posti in cui non ti aspetteresti mai di trovare una chiesa cattolica.

Già, ieri mi sono impegnato e ho trovato la chiesa dei Santi Pietro e Paolo e sorprendentemente era proprio vicinissimo allo Sheraton! Per cui non avevo più scuse, se non potevo portarla a messa, almeno una visita. Ci siamo andati a piedi, lungo i viali del business district. La passeggiata era piacevole. Sembrava di essere avvolti dal primo caldo di Giugno quando assapori l’aria profumata e ti viene voglia di stare fuori alla sera.

Abbiamo attraversato intere carreggiate dei succitati viali con molta precauzione senza essere travolti dalle auto. Qui i passaggi pedonali sono un optional e il pedone è visto come fastidioso bipede attraversante la strada che si deve cacciare via, proprio come un gatto.

Avevo quasi perso le speranze dopo un’ora di cammino perché in effetti era un chilometro e qualcosa – tra l’altro sotto il sole… non avevo nemmeno google maps che mi aveva sostenuto per un po’ ma poi si è ritirato nel suo mondo – ma alla fine siamo arrivati. In realtà la chiesa, che da lontano assomiglia ad una moschea con una cupola bianca, senza però il minareto, si trovava all’interno di un parco della “fede” nel quale venivano messi assieme altri edifici per il culto di altre religioni, tra cui quella ortodossa e una non meglio nota società sulla bibbia.

Dall’esterno, sembrava di entrare in un precinto militare, un compund strategico, ma appena varcato il cancello, ti trovavi nel bel mezzo di un presepio e di un albero di natale. Solo allora Mater ha realizzato di essere all’interno di una chiesa cattolica e si è rinvigorita. È partita a razzo, è entrata in chiesa, e si è fatta tutta la navata come se dovesse esplorare la messa della domenica trasmessa su rai1. Alcune signore stavano allestendo gli addobbi natalizi. Se non fosse stata per la lingua, Mater sicuramente l’avrei persa e si sarebbe messa lì ad aiutare. Vedevo che non era del tutto soddisfatta. Se avesse assistito alla messa, forse sarebbe stato il top per lei… Invece… Ha iniziato a vagolare tra le panchine, l’altare ed è entrata pure in sacrestia. Un addetto, che non era il prete, è rimasto lì a raccontarci della comunità cattolica di Mascate e ci ha dettagliatamente elencato, giusto per girare il coltello nella piaga, tutti gli orari delle messe. E io dentro di me, ero contento che entro poco sarei partito…

Al ritorno, ci siamo fatti portare all’albergo da un taxi. Mater non se la sentiva di farsi sfiorare di nuovo dal traffico delle expressway di Mascate. Allo Sheraton abbiamo fatto il checkout, siamo stati in attesa del transfer e a mezzogiorno ci hanno portato in aeroporto. Il driver era proprio antipatico, penso l’unico di tutta la città. A momenti non ci ha salutato nemmeno.

L’aeroporto di Mascate è piccolino, non è infinito come quello di Dubai o di Doha. Si consuma dopo quattro passi ma è pulito e immacolatamente lucido. Ancor di più della grande moschea. Talmente liscio il pavimento di marmo che rischiavi seriamente di scivolare e farti del male. Nella hall principale una scritta a caratteri cubitali preceduta da un cuoricino rosso che componeva la parola Oman era il setting perfetto delle foto e dei selfie. Era un rituale. Una squadra sportiva di non so quale nazione si è messa dietro ad ogni singola lettera e si è fatta una foto spettacolare. Pure la polizia. Così anche Mater non voleva sfigurare.

Il volo per Salallah è durato un’ora e mezza ed è partito in perfetto orario. Dopo aver oltrepassato la conurbazione della capitale, il deserto, solo ed esclusivamente deserto per tutti i mille chilometri che ci separavano dalla città… Avranno pure il petrolio, i soldi, potranno desalinizzare tutto l’oceano, ma vivono in un posto terribile. Hai voglia a dire Insciallah! A Muscat nei mesi estivi, quando è “estate forte”, è chiuso tutto, lo stato dell’Oman è completamente fermo, così disse la mia guida.

L’aeroporto di Salallah è fatta da una striscia di catrame poco a nord della città. Anche in questo caso l’aereo ha mancato la pista, è andato oltre, praticamente fino al confine con lo Yemen ed è tornato indietro con una virata spettacolare sulle falesie della costa. In aeroporto, il driver mi aspettava con una paletta di ragguardevoli dimensioni con su il mio nome. Sembrava la racchetta per giocare a ping-pong. Mi vergognano molto. Carletto Genovese. Yes, that’s me! Altro che Grande Fratello VIP!

E così in tempo per ammirare l’ultimo spicchio di sole infuocato che si gettava al mare, sono arrivato al Rotana Havana Resort beach club… e sa dio cosa altro.