La vita nel villaggio è davvero easy.
Non puoi nemmeno evadere anche perché fuori da qui non trovi niente.
Dopo colazione, mi sono così diretto verso il mare, unico punto di fuga e di libertà.
La mia passeggiata mattutina, che mi ha portato tanto in là, camminando sulla battigia, mi ha permesso di smaltire le due brioches ingurgitate a colazione.
Dopo un paio di chilometri, di punto in bianco, mi sono voltato e sono tornato indietro. Non sono arrivato da dove sono partito ma ho proseguito verso la Marina, camminando su uno dei due bracci del molo.
Mater, santa donna, mi ha seguito senza dirmi niente, senza nemmeno lamentarsi. Ormai è proprio rassegnata!
Sapevo che avrebbe voluto fermarsi e stare con le altre signore vicine d’ombrellone.
Infatti, non appena finito il giretto, l’ho vista avvicinarsi dal nostro sdraio e poi dirigersi dalle sue nuove amiche. Ma sì, che abbia la sua vita sociale!
Io, invece, soddisfatto nell’aver espletato le mie esigenze salutiste, mi sono buttato nel mare, abbracciando le onde che mi ruzzavano all’indietro ogni volta che mi colpivano.
A mezzogiorno, Mater era tentata di fare acquagym con le animatrici ma poi non se l’è sentita di entrare in piscina perché troppo l’acqua era troppo alta e fredda.
Sotto al pergolato della palazzina principale, ho trangugiato giù un po’ di cibo perché poco dopo sarei dovuto partire per l’escursione nel deserto. Ho mangiato con l’imbuto!
Alle 13, dalla reception dell’albergo, siamo partiti con quattro jeep per il Nord. Mater l’ho lasciata in albergo. L’esperienza del deserto, so che l’avrebbe affrontata con diligenza, ma sarebbe stata un po’ estrema.
E poi, egoisticamente parlando, volevo rimanere un po’ da solo. In fondo, la lasciavo in buone mani e poi si trattava di una sola notte. Suvvia, che cosa le sarebbe potuto succedere! Al limite c’erano i ragazzi della Bravo che l’avrebbero consolata!
La carovana di jeep, in fila indiana, ha percorso dapprima tutto il vialone verso l’aeroporto e poi ha virato verso Nord, puntando verso Muscat! 130 chilometri in un’ora e mezza. Abbiamo oltrepassato le montagne che contornano la città, tagliando i tornanti per superare camion lentissimi, per poi trovarsi su un rettilineo infinito. Se avessi guardato bene, probabilmente avrei visto la capitale, lontana 900 km.
A livello della città di Thumrait abbiamo svoltato a sinistra portandoci all’interno e verso il confine dell’Arabia. Le montagne avevano ceduto il passo a lande piatte e desolate. La strada liscia si srotolava nell’indefinito. Il cielo si era annuvolato.
Temevo di non riuscire a vedere il tramonto e le stelle.
Prima tappa, a Shisr, la città perduta di Wubar, sito dell’UNESCO, anche se sul sito ufficiale non sembra sia contemplata nella lista.
Una cittadina maledetta da dio per colpa della mancanza di fede del suo popolo. Dio, il buono, per fortuna, ha aperto la terra proprio nel punto su cui sorgeva la città, facendola precipitare e capovolgendola. Un cicinin vendicativo questo dio… Il sito non era niente di che. Piccolissimo: quattro pietre che delimitavano le mura della città e questo squarcio sotto il quale la roccia assumeva delle forme di punte di montagna capovolta! Sì, con molta fantasia!
E dal paesello, che già mi sembrava sperso di suo, abbiamo abbandonato la strada, anche perché si fermava lì e abbiamo proseguito nelle piste di terra battuta. Una colonia di dromedari placidamente brucava poco più in là. Abbiamo deciso di fermarci per fare alcune fotografie. A dire il vero, sono stati loro ad avvicinarsi e a salutarci calorosamente.
Un dromedario addirittura mi ha appoggiato il muso sulla mia crapa pelata e mi ha snasato per bene. Sentivo il suo respiro dalle froge del naso direttamente nell’orecchio. E poi, visto che eravamo così vicini vicini, ci siamo fatti un selfie di saluto. Mi sembrava la camellessa molto soddisfatta del selfie.
Ci siamo poi diretti verso un punto indefinito nel nulla davanti a noi. Le ruote della jeep erano state sgonfiate un po’ perché si potesse andare più veloci e sicuri. Mi chiedevo come riuscissero guidare perché era ormai diventata una navigazione. Strade non ce ne erano, solo terra battuta e una tavola da biliardo immensa. Come potevano permettersi di andare così veloci senza perdere l’orientamento, era per me una cosa che mi lasciava interdetto. Ho provato in tutti i modi ad individuare il posto su internet ma era tempo sprecato.
Lo Schumacher dell’Oman, quello che impazziva sulla nostra jeep, ha guidato diligentemente fino all’inizio del deserto ma poi, non appena iniziato il fuori pista si è trasformato e ha iniziato a sgasare premendo sull’acceleratore, sterzando e controsterzando, affrontando le curve in drifting, e lanciandosi sugli avvallamenti come se si trovasse su un taboga. Ero lì quasi a togliergli la chiave dal quadro dell’auto. Peccato che non ci fosse! I gitanti nei sedili posteriori erano esaltatissimi, ci mancava che facessero la “hola” ad ogni prodezza del cretino d’autista. Il deserto da roccioso e cespuglioso si è trasformato nel tipico sabbioso di dune che si perdevano a vista d’occhio.
Talmente cretino che a un certo punto ha pure sbagliato strada! Giuro! Certo, niente di più facile, ma come? Si vantano di vivere nel deserto, che quella strada l’hanno fatta mille volte, e alla prima duna, mi sbaglia la direzione! Idiota patentato.
Ma alla fine, dopo aver schivato mille dune ed essere riusciti ad evitare il capottamento, il campo tendato era lì davanti a noi, come un miraggio, adagiato su un pianoro circondato da dune. Una visione di insuperabile bellezza. In un attimo mi sono dimenticato di tutte le prodezze del cretino, della polvere tirata su e il tempo si è fermato in quella luce crepuscolare, dorata che si adagiava dolcemente sulle linee curve delle dune.