Guglielmo
Ti guardavo mentre piangevi e cercavi di liberarti dalla morsa della polizia. Eri furioso. Gli scarponi dei poliziotti premevano sul torace. Le mani erano legate da una paio di manette. Il corpo senza vita di un’altra persona giaceva poco più in là.
Eri in arresto, ormai un omicida.
La maglietta era sporca di sangue: tuo e di tuo padre. Non potevo credere che fosse proprio lui.
Avrei voluto fermare il tempo per capire che cosa era successo, guardare, avvicinarmi a te e al suo corpo che presentava una vistosa ferita all’addome.
Avrei dovuto fermarti prima che tu diventassi un criminale. Ti avevo visto mille volte, mi avevi scomodato nei momenti più impensabili della giornata e della notte. Ero venuto persino in questura e ti avevo difeso. Sempre.
Eri bellissimo.
Per questa bellezza ti credevo incapace di fare del male alla gente; la tua bellezza ti faceva perdonare tutto.
Potevi essere mio figlio e io quel padre a cui hai fracassato la testa e squartato l’addome con un coltello.
Non ero sicuro che fossi così pericoloso. Non appena percepivi la mia presenza cambiavi atteggiamento. Sì, ormai mi consideravi un amico e speravi sempre che dopo le tue mattanze, venissi a giustificare le esplosioni di ira, le pazzie.
Ti conoscevo bene, ero venuto a soccorrerti dopo l’incidente con la moto; ti avevo caricato sull’ambulanza durante la crisi epilettica stramazzando a terra nella piazza dei cinque cerchi ormai ad un passo dall’assideramento; mi avevano chiamato persino in discoteca, mentre eri riverso sul pavimento del bagno con la bava alla bocca, le pupille puntiformi e probabilmente un micidiale miscuglio di pastiglie e alcool nello stomaco.
Per non parlare delle innumerevoli volte in cui eri in preda ad un raptus di pazzia. Gridavi come un forsennato contro chiunque si avvicinasse. Ti tranquillizzavi non appena sentivi la mia voce. Mi opponevi resistenza con la testa piegata contro di me ma ti lasciavi abbracciare e toccare. Sapevo che non mi avresti parlato o rivolto lo sguardo. Volevi semplicemente un contatto, che qualcuno capisse. Credevo di conoscerti a sufficienza, speravo di limitare la tua rabbia che si sgonfiava lentamente e con un paio di carezze sulla nuca ti portavo a casa.
Mi rendevi partecipe soltanto del tuo disagio di cui però non sapevo riconoscere l’origine. Non ti avevo mai visto al di fuori dei tuoi momenti di ira furibonda. Condividevo soltanto la fragilità psicologica, le crisi di nervi che per sedarle dovevo faticare non poco, rischiando ai primi tempi, morsi e calci. Dopo le urla, mi colpiva il tuo silenzio. Non credo di averti mai sentito parlare, forse qualche parola ma mai discorsi interi. Non parlavi, sembrava che non avessi bisogno di niente. Bisognava aspettare i tuoi tempi. Quando ti mettevi nei guai, speravi che qualcuno ti tirasse fuori dalla precarietà senza che tu facessi un minimo sforzo.
Le accuse che ti rivolgeva tuo padre stentavo a crederle. Ti accusava di essere un poco di buono. Non gli credevo quando mi diceva di volerti bene bloccandomi nel momento di iniettarti qualche farmaco in vena, quando mi assicurava che avrebbe fatto di tutto perché un altro episodio simile non sarebbe più successo. Non lo capivo, tuo padre.
Era disposto a chiamare il centodiciotto per ogni più piccola sciocchezza ma appena vedeva l’ambulanza, mi supplicava di non farti salire.
Non ti ho mai portato al cinquecinquanta, la psichiatria dell’ospedale, prendendo spunto dall’interno telefonico… Mi sono sempre rifiutato di firmare i moduli. Ogni volta mi sentivo legato a due esigenze: le preoccupazioni di tuo padre e la tua libertà. Se non lo capivo, mi risultava tuttavia difficile comprendere le tue pazzie.
Sicuramente avevate entrambi bisogno di attenzioni.
Come ti somigliava! Lui, però, aveva perso la bellezza lungo gli anni. Verso tuo padre provavo una sorta di conflittualità. Lo trattavo con superiorità, con pregiudizi, convinto che il debole fossi tu. Lo consideravo meschino. Non riuscivo ad ascoltare le sue parole, molte cose in lui non quadravano.
Minacciava di mandarti dalla nonna e da tua madre che si stava rifacendo una nuova vita e un nuovo amante nel calore accogliente del Sud ma sempre ti lasciava a casa. Ti avrebbe privato di ogni cosa ma ti viziava. Quella moto potente con la quale per poco non ti ammazzavi, te l’aveva comprata poco dopo avermi giurato e spergiurato che non te l’avrebbe mai concessa.
Non riuscivo a comprendere che cosa ci fosse di vero in quello che diceva.
Tuo padre era stato in prigione. Era stato accusato niente meno che da tua sorella di averle messo le mani addosso. Era bastata la denuncia dell’assistente sociale per fargli mettere le manette ai polsi. L’impiegata comunale era del tutto ignara che lei era già in cura da una collega psichiatra da più di un anno.
Tre mesi dopo era stato scarcerato perché la perizia aveva appurato che tua sorella aveva mentito. C’erano innumerevoli relazioni che sollevavano grandi dubbi sulla veridicità delle sue parole.
Erano partite tante scuse da tutte le istituzioni, l’istruttoria fu subito archiviata ma tuo padre aveva perso il lavoro in Svizzera, un lavoro da ben cinquemila franchi al mese come capo reparto di una grossa ditta.
Anch’io ero rimasto dalla parte dei colpevolisti prima che il GIP sancisse la sua estraneità.
Tuo padre non veniva creduto da nessuno, nemmeno da me. Mi aveva messo sotto il naso la busta paga e i documenti della cassa mutua previdenziale perché ero rimasto scettico sul suo lavoro. Gli avevo quasi riso in faccia quando mi aveva parlato di cinquemila franchi.
Era mite, non si arrabbiava. Avevo dovuto per forza credergli con quei documenti branditi come se fossero un’arma con la quale difendersi o di fronte ad una sentenza inappellabile che non lasciava alcun dubbio.
Tuttavia rimanevo incerto nei miei giudizi, non mi fidavo quando mi guardava con disprezzo quasi da accusarmi di prendere le tue difese piuttosto che le sue. Se fosse stato per lui probabilmente non mi avrebbe neanche considerato, non mi avrebbe sventolato la busta paga e le sentenze, non si sarebbe giustificato davanti a me.
C’eri tu in mezzo purtroppo, sapeva che tu ti fidavi soltanto di me. Lui mi temeva, mi guardava con meraviglia, con invidia quasi sicuramente quando appoggiavi il capo su di me e ti lasciavi andare vulnerabile e amabile. Avrebbe voluto che la testa l’appoggiasi su di lui.
Eri tu il vincitore. Vincevi su tuo padre che invece doveva piegarsi davanti alle istituzioni.
Di fronte all’immagine idilliaca che mi dava di sé, alla mitezza di uomo, padre dolce e bello, lo stipendio da cinquemila franchi al mese, una villa sul confine, mi riusciva incomprensibile capire come la tua famiglia fosse un coacervo di incomprensioni e ormai imminente alla disgregazione.
Mi sarei aspettato che tutto fosse apposto.
Nessuno era rimasto nel nucleo familiare. Era da solo lui. Nessuno accanto.
La moglie, quella dolce e cara donna che si era allontanata lasciando tutto il casino familiare su di lui. A lei non interessava niente di te e di tua sorella. La Svizzera, i soldi, la bella vita di donna viziata, ecco perché si era sposata. La noia di tutto ciò l’aveva portata ad andarsene al Sud per sentirsi protetta dalla madre e dal nuovo amante che aveva molti più soldi, altro che quei miseri cinquemila franchi! L’amante, un imprenditore, non meglio identificato che viveva al mare, che viaggiava per oscuri affari.
Tua sorella aveva montato ad arte una di quelle calunnie lasciando che tuo padre andasse in prigione schiacciato da una burocrazia inflessibile…
Tuo padre si fidava di lei. Come non fidarsi della propria figlia? Che altro avrebbe potuto fare?
Ecco, eravate tutti annoiati. Nessun dramma psicologico, nessuna precarietà. Solamente noia, vuoto esistenziale e mancanza di adrenalina.
Avevo mentivo a me stesso prendendo tempo per darti la possibilità di riscattarti. Credevo che tu non dovessi entrare in questa faccenda complicata. Doveva per forza di cose esserci un gene impazzito che creava un tessuto tumorale, marcescente, impossibile da sradicare. Non vedevo altre spiegazioni.
Non c’era motivo per la tua pazzia. Tuo padre non era violento, ti aveva accudito. La madre si era allontanata soltanto da poco. Perché allora tutto questo? Perché ora mi dovevo scontrare di fronte ad una realtà che non lasciava più dubbi, esattamente come mi ero sentito dopo la sentenza.
Mi ero illuso che la fragilità psicologica si potesse risolvere. Era tutta finzione. Eri un attore nato come quella mitomane di tua sorella. Avevo preposto un’infinità di giustificazioni che si fondavano soltanto sulla reciproca fiducia. Ti lasciavo in casa, non ti portavo mai in ospedale se non quelle volte in cui la tua vita era minacciata da cause organiche e tu mi mostravi la parte buona di ragazzo redento, conscio che saresti cambiato in meglio. Sancivamo un patto di non belligeranza in quei momenti di mutismo, in quel transfer in cui io ti passavo la mano sulla nuca e tu ti lasciavi andare tra le mie braccia come un animale addomesticato che si fida ciecamente del suo padrone. Nonostante ogni volta il patto veniva disatteso, cercavo in tutti i modi di spianare la strada per strapparti ulteriori promesse. Invano.
Che cosa facevi? Cercavi di vivere nel modo più sovversivo possibile per sentirti vivo, per non morire di noia. Gridavi, andavi ad ammazzarti in piazza, ti facevi venire le crisi epilettiche. Con gli amici ingaggiavi gare sul vialone. Chi arrivava prima ai cinque cerchi poteva vantarsi della stima del branco, avere diversi pacchetti di sigarette e altri privilegi all’interno del quartiere. Quando perdevi, gridavi al mondo una rabbia che non era fondata su alcuna ragione. Ti tagliavi i capelli cortissimi. Una volta ti avevo visto completamente rasato con diverse ferite sul cranio. Ti davano fastidio i capelli, li sentivi pesanti sulla tua testa.
Alzavi la posta in gioco, chiedevi sempre di più a tuo padre che, poverino, come se non bastassero le accuse della sorella, cercava di accontentarti in tutto.
Era tuo padre il capro espiatorio. Era mite lui. Gli cadevano in testa delle grosse tegole ma non faceva nulla per scansarle. Probabilmente era incapace di vederle.
In carcere era rimasto impassibile, non aveva fiatato neanche quando era stato assegnato nella peggiore delle sezioni, nuovi giunti, normalmente destinata a coloro che si erano macchiati di delitti che non potevano neanche essere accettati dalla comunità carceraria. Era in cella assieme a dei tossicodipendenti che urlavano tutto il giorno. Gli chiedevano piccoli favori e sigarette, lo incitavano a farsi dare dei psicofarmaci, xanax e tavor da due grammi e mezzo, richiesti nel commercio nero della prigione, lo umiliavano in continuazione. Gli avvocati non si erano neppure mossi se non per le formalità di rito, per la convalida dell’arresto e per raccogliere semplici dichiarazioni.
Era rimasto semplicemente in silenzio, non aveva neanche provato a difendersi. Era un puro di cuore che non veniva creduto.
Non dalla moglie, né dai figli né da chiunque altro.
In questa storia, mio malgrado ero stato trascinato da te. Eri rimasto letteralmente senza fiato quando, arrivando a sirene spiegate, ti avevo detto che ti saresti potuto pure ammazzare, che a me non fregava assolutamente niente delle tue fregnacce, che se davvero ti fossi fatto male, avrei veramente saputo che cosa fare dal momento che ero un chirurgo d’urgenza e non uno psichiatra; che non andavo in giro a mettere a letto i ragazzini che si pisciano addosso. Ti avevo risposto a muso duro. Andandomene. Ti avevo lasciato lì nella piazza ad urlare come un cretino e mi ero messo a ridere. Eri rimasto talmente spiazzato che tutta la adrenalina che avevi in corpo non ti era servita a nulla. Mica ero tuo padre io. Le tegole le vedevo benissimo e non volevo che mi colpissero facendomi male.
La noia ti aveva tradito. Ti avevo lasciato lì ma ero tornato poco dopo richiamato dai passanti.
Questa volta eri in silenzio, per terra, occhi chiusi. Visto che con le grida non avevi ottenuto nulla, ti eri messo a fare una sceneggiata in grande stile. Dapprima con una bella crisi convulsivante, sbattendoti per terra, agitandoti, graffiandoti tutto e poi, rimanendo assolutamente fermo, trattenendo il fiato. La gente si era addirittura indignata dal fatto che me ne fossi andato. Come si può lasciare un ragazzo in mezzo alla strada. Visto che adesso sta male per davvero. Che medico incosciente. L’avevo detto io che non stava bene. Le sentivo le voci, i commenti mormorati a mezz’aria mentre mi inginocchiavo su di te e controllavo i parametri vitali. Ero divertito dalla tua pantomima. Saresti rimasto immobile per l’eternità pur di ottenere la mia attenzione. Non respiravi, serravi i denti. Non potevo certo farmi commuovere da una sceneggiata teatrale. Avevo altre armi. I parametri vitali rientravano nella norma, la traccia verde sul monitor era perfetta, il qrs avanzava con regolarità. Ti avevo accarezzato la fronte e quello fu il nostro primo contatto che ti avrebbe fatto spalancare il tuo mondo su di me. Ti avevo caricato sull’ambulanza perché altrimenti mi avrebbero linciato e mi vedevo già il titolone sulla locandina medico lascia in strada un ragazzo bisognoso di cure.
Ti avevo, però, trasferito nella astanteria del pronto soccorso. Tuo padre era venuto a prenderti. Prima di farlo entrare, ti eri seduto sul bordo del letto con la testa china. Mi ero avvicinato. Ti eri appoggiato a me cercando di spingermi via ma il tuo gesto era talmente debole che paradossalmente rappresentava una disperata richiesta d’aiuto. Un’altra carezza sul collo sanciva definitivamente la nostra amicizia.
Così avevo conosciuto te e tuo padre. Da allora mi avevi trascinato nel tuo delirio. Mi mettevi in mezzo. Sapevi che con me la noia non avrebbe vinto. Quando giocavi arrivando al limite dello stordimento, alla fine volevi riposarti. Ero lì a viziarti, a farti dormire, a prendere le tue difese. Ti piaceva farti compatire.
Alla questura dopo un’ennesima sfuriata, ero stato convocato per discutere sul tuo futuro. Tuo padre proponeva di mandarti al Sud, i poliziotti senza tanti complimenti mi chiedevano di firmare un trattamento sanitario obbligatorio che avrebbe messo fine a tante seccature. Stavamo attorno ad un tavolo come se fossimo ad una riunione sindacale. Non volevo sentire le loro proposte. Non volevo prestarmi al loro gioco. Avevo chiesto di vederti. Mi ero avvicinato a te e con la testa tra le mie braccia, sempre senza guardarmi, cercavi affetto.
Mi chiedevo che cosa avrei potuto fare per toglierti di dosso, una buona volta per tutte, quell’irrequietezza che non ti lasciava vivere. Non capisci che così peggiori le cose. Vogliono mandarti via. Non avrai più i tuoi amici e non potrai scorrazzare con la moto. Te le avevo sussurrate queste parole sperando che ti entrassero nel cuore. Prendevo ancora una volta le tue difese. Adesso me ne vado non voglio più tornare. Ti avevo lasciato, facendo entrare tuo padre, facendogli capire che era solo un problema vostro, non della polizia.
Se avessi saputo che mentivi, che non c’era alcun substrato che giustificasse le tue ansie, forse non sarei stato così protettivo.
Avevo sbagliato e me ne rendevo conto ora, mentre cercavi di liberarti dalle manette. Non appena mi avvicinai, ti calmasti. Il solo movimento impercettibile dei miei passi, era stato sufficiente per farti zittire. Increduli i poliziotti. Sottovoce chiesi ti lasciarmi da solo con te per cinque minuti. Assunsi un’espressione professionale per far capire che non saresti potuto scappare da nessuna parte. Mi concessero questo favore benché violassero la legge. Di fatto eri in arresto. Ti avevano ammanettato e privato della libertà.
Guglielmo hai ucciso tuo padre? Ti rivolsi la domanda girandomi di spalle guardando l’uomo che giaceva poco più in là. Silenzio. Presi a guardare tuo padre. Dalla testa usciva del sangue, le fattezze del volto erano scomposte. Mi sembrava una maschera irreale, da cartoni animati. Buffa. Mi resi conto che questa volta credergli fino in fondo non sarebbe servito a nulla, che non avrei dovuto deriderlo ulteriormente, che non avrei più dovuto prendere le tue difese. Tuo padre era lì, giaceva supino con gli occhi spalancati. Mi avvicinai al suo volto. Gli chiusi le palpebre. La colpa mi prendeva fin dentro le viscere. Guardavo lo squarcio tra il cuore e l’addome, l’ipogastrio, una zona indefinita per gli antichi romani che credevano potesse risiedere l’anima. Silenzio alle mie spalle. Silenzio sul monitor: un’inquieta linea piatta.
Mi girai di scatto. Ti vidi che mi guardavi, sì, questa volta mi guardavi. I tuoi occhi azzurri mi penetravano. Eri in preda ai singulti. No! Guglielmo non guardare me e la rabbia montava come una marea prorompente, no Guglielmo questa volta non ti toglierò dai guai e sentivo un fremito in tutto il corpo. Con un balzo felino mi trovai al tuo cospetto. Non mi toglievi gli occhi di dosso. Ti presi per la maglietta umida di saliva e ti trascinai ai piedi di tuo padre. Bastardo! è lui che devi guardare, è a lui che devi chiedere scusa. Ti strattonavo con forza, ti bloccavo lo sguardo sul suo volto. Tu rimanevi in silenzio con le lacrime agli occhi. Guglielmo, hai ucciso tuo padre! Ero io questa volta che urlavo. La polizia entrò ma rimase sulla porta. Non volevano fermarmi. Gli agenti sapevano che tu mi stavi ascoltando e che difficilmente ci sarebbe stata un’altra occasione per farti aprire gli occhi sulla verità. Dovevo riempirti di rimproveri e schiaffoni così che avresti vissuto tutta la vita con la colpa e il rimorso. Altro che fragilità psicologica e disagio esistenziale! Eri un bastardo. Eri tu il tessuto tumorale che tuo padre aveva sempre fatto finta di non vedere. L’aberrazione cromosomica che non era riuscito ad aggiustare. Capivo soltanto adesso il suo bene, la docilità, i suoi tentavi genuini e grossolani di tenerti con sé e di non farti allontanare da lui. Vedevo adesso tutta una coerenza nei suoi atteggiamenti. Quell’uomo ti amava ed era riuscito con la vita stessa a dimostrartelo. Era il suo amore ciò che ti donava.
Tu l’avevi distrutto. Guglielmo, perché l’hai ucciso, perché mi hai ingannato? Che cosa ti ha fatto di male. Te le urlavo queste parole a pochi centimetri dalle tue orecchie e tu piangevi. Lacrime sincere per la prima volta, che ti rigavano il volto, il tumore si stava aprendo lasciando che il pus uscisse copioso. Mi hai tradito, mi hai preso in giro. Ti credevo puro di cuore, bisognoso di affetto. Invece no, di affetto ne hai ottenuto quanto ne volevi. Tuo padre è qui, ti aveva dato tutto ciò di cui avevi bisogno. Hai perso la sfida, sei brutto. Nessuna bellezza potrà mai riscattarti dal delitto compiuto.
La colpa la riversavo su di te. Il dolore che provavo doveva essere pagato interamente da te. Ti scagliai per terra preso da una collera improvvisa. Alla polizia chiesi di portarti via. Tu iniziasti a gridare, a urlare il mio nome. Eri spaventato. Desideravi che mi girassi e che dicessi di lasciarti libero. Tremante e coi pugni chiusi, gettai a terra la siringa con il sedativo. Non ce ne sarebbe stato bisogno. Dovevi essere lucido e comprendere il male che avevi fatto. No Guglielmo, questa volta non sarei tornato a prenderti e a difenderti. Avrei fatto di tutto e firmato tutti i moduli necessari perché tu potessi finire dritto dritto in carcere. Non avrei permesso che le istituzioni sbagliassero di nuovo magari riconoscendoti un vizio di mente e mandandoti in un anonimo ospedale psichiatrico giudiziario. Sarei andato di persona davanti al giudice per testimoniare la tua completa colpa e la lucida arroganza che ti avevano portato ad uccidere tuo padre. Non ti avrei più difeso.
Che cosa avresti potuto ottenere da me quando ti avevo concesso la mia totale fiducia, quando la noia ti aveva fatto diventare un omicida?
Appena fuori, rimasi immobile, esausto, dolorante, con la gola secca, avevo il fiatone. Per un momento sperai che fosse tutto un sogno, che tutto ritornasse come prima, che potessimo stabilire quella sintonia che nessun altro riusciva a intaccare, che tu ti ritrovassi tra le mie braccia a riposare. Speravo ardentemente che per una volta ti sentissi vero non più annoiato.
Avevo sbagliato tutto, ti avevo voluto bene come ad un figlio, ignorando tuo padre. Avevo voluto sostituirmi a lui, giudicandolo stupido e meschino.
Ora mi sentivo veramente piccolo, indifeso e vulnerabile. Lo stupido e meschino ero io. Tuo padre giaceva lì in mezzo alla stanza. Gli chiedevo scusa per tutte le incomprensioni ma le colpe mi inchiodavano. Avrei fatto di tutto per riaverlo vivo, per sentire le sue giustificazioni, le sue contraddizioni, per percepire di nuovo la sua ruvida amorevolezza nei tuoi confronti. Tra le due esigenze ormai non potevo più scegliere. La libertà l’avevi bruciata come un fiammifero acceso. Sentivo impellente la disperazione di non aver fatto abbastanza per lui. Ti avevo dato tutta la fiducia di questo mondo come te ne aveva data lui. Sentivo tutta la stupidità dei miei gesti nell’essermi sostituito a lui. Avrei voluto essere suo figlio, l’avrei venerato e amato.
Mi diressi alla porta. Feci in tempo a vederti mentre ti caricavano sul cellulare blindato della polizia. Mi guardasti. Vidi la tua angoscia ma era ormai troppo tardi. Avresti potuto gridare per il resto dei tuoi giorni. Saresti crepato di tumore per il resto della tua vita.