Il ritorno

Finalista Concorso Letterario “Parole per Terra” Terre di Mezzo Milano 07 Maggio 2001 Pubblicato nella raccolta Radici e ali, Racconti a margine Editrice Berti Settembre 2001


Ritornò
a Mosca dopo due anni di assoluto silenzio. Non aveva avvisato nessuno.
Neanche un telegramma a sua madre che lo aveva atteso fiduciosa del
suo ritorno, magari in occasione della grande festa d’Ottobre. Senza
Nicolaëvic aveva passato momenti difficili; perlomeno quando era
in casa entravano dei soldi: lui trafficava nel mercato nero e guadagnava
almeno venti o trenta rubli d’oro al giorno, oppure portava magliette
per il fratellino, foulard per la madre e molte cartoline. C’era sempre
allegria quando tornava alla sera. Arrivava con qualche amico e si fumavano
le Kosmos; avevano un sapore diverso dalle solite e ammuffite Belomorkanal.
Le sigarette venivano consumate velocemente. Sigarette del traffico
nero. Non appena entrava dalla porta, la madre alzava gli occhi su di
lui; poi li abbassava subito per perdersi nel lavoro di ricamo. Nicolaëvic
portava dentro di sé un’ombra di tristezza. Non riusciva a trovare
pace neppure quando si trovava solo nel silenzio della periferia, quando
passeggiava per la Krasnajia Plosciad o la Kitaj Gorod. Aveva iniziato
a provare il male di vivere a due anni, quando aveva fame e al posto
del latte trovava una scodella di acqua calda. A quattro anni voleva
giocare con la neve in prossimità dei binari del tram, e le mani
timide non riuscivano a sopportarne il freddo. Nessuno gli aveva regalato
dei guanti. Li desiderava, sperava che qualche santo glieli portasse
dal cielo. Correva nei monasteri, con la madre che lo seguiva a stento,
e pregava ardentemente che i suoi desideri venissero esauditi. Le preghiere
si disperdevano nel silenzio e in un denso odore di incenso. Pregava
davanti a icone colorate; ne amava la purezza dei volti. Quando ammirava
l’immagine di una madonna che cullava il figlio, la voglia struggente
di sentirsi amato saliva prepotente dentro di lui. Mosca gli pareva
troppo grande: le sue strade erano così larghe che per attraversarle
bisognava correre. Il cielo della sua adolescenza era sempre stato grigio.
Uno strazio per il suo cuore. Ora tornava da un lungo viaggio durato
due anni nella penisola di Kamcatka. Respirando l’aria di Mosca, non
appena sbarcato all’aeroporto di Domodoevo, si era sentito sollevato.
Aveva abbracciato la madre e aveva a lungo accarezzato il fratellino.
Per ora gli bastava di essere tornato nella sua grande Mosca, madre
di tutte le Russie. Uscì di casa e si gettò con impeto
nella adiacente Kalinina Prospect percorrendola tutta. Si tranquillizzò
e il respiro divenne profondo e calmo. Assaporava l’aria gelida; si
annunciava un inverno rigido. Non finiva di stupirsi, guardando i palazzoni
di cemento e vetro. Camminando, cercava di rievocare i motivi che l’avevano
spinto ad una partenza improvvisa. Aveva trovato un buon giro di affari,
bazzicando negli scantinati di qualche fabbrica, infilandosi negli uffici
della dogana grazie ad una divisa imprestata da un amico e ad un tesserino
falso ottenuto per venti dollari. Riusciva a mettere mano su tutti i
prodotti provenienti dalla Cina, dalla Corea o dalla Thailandia e destinati
all’Europa. Il giro di affari si era allargato vertiginosamente. Così,
dagli accendini e dalle stilografiche, era passato a interessarsi di
droga e infine di armi e munizioni. Aveva sempre con sé dei dollari
da rifilare nelle mani della Security. Sapeva benissimo che i funzionari
della macchina statale erano dei venduti. Era sufficiente un biglietto
da cinque dollari. Filtrava le barriere, raggiungendo i cargo negli
hangar di qualche base nascosta nella foresta ad Est di Mosca. Commerciava,
dirigeva il traffico con abilità. Nessuno sospettava di lui.
Un ragazzo venuto dal nulla. Nessuno sapeva da dove venisse. Si confondeva
con i giovani della Soviet Army. Così lo si vedeva sparire in
un vicolo laterale del Bulvar Mir o della Leningradiskii Scossoe. Si
perdeva a Nord nei pressi della stazione di Sokòl o della stazione
Paveleckaija. Non tornava mai a casa prima del tramonto. Prima di scendere
nella Kalinina Prospekt per raggiungere via Herzen, prendeva parecchi
treni per depistare chiunque lo seguisse. Il tesserino falso forniva
un nome falso, ma la foto mostrava il volto di un giovane nel quale
si poteva riconoscere un sorriso appena percettibile. E grazie al tesserino
era diventato molto importante. Andava in giro e nelle taverne beveva
birra: un lusso, altro che vodka! Già! Ma perché era scappato
via per due anni? Non poteva continuare a godere del giro di affari
che si era creato? No! Si ricordò di quel giorno quando un generale
della Soviet Army gli si era avvicinato furtivamente e gli aveva sussurrato:
“Senti Nicolaëvic Dvinskij, so tutto dei tuoi traffici…
Se non sparisci entro quattro giorni, ti aspetta l’Afghanistan. Addio,
Nicolaëvic!” Se ne era andato deciso. Non un gesto. Nicolaëvic
era riuscito a vedere soltanto una sagoma robusta, dignitosa. Era un
generale! Era rimasto fermo, rannicchiandosi come un bambino, nella
penombra di una costruzione fatiscente e mai come allora aveva percepito
il sapore invitante della zuppa e il calore accogliente della sua casa.
Della guerra non voleva avere esperienza. Quella sera non era rientrato;
aveva passeggiato errando per Mosca. Non fece nulla per nascondersi,
non c’era più motivo. Il giorno dopo si era avvicinato alla madre,
sussurrandole: “Devo partire per la Kamcatka”. “Perché
così lontano? Non puoi andare a Taskent, a Kiev o a Samarcanda?”
“No. Ormai ho preso questa decisione…” Era salito in camera,
si era guardato attorno e si era messo a piangere. Davanti ad uno specchio,
con il volto tirato in una smorfia di dolore, si era detto “coraggio!”.
Si era dato una scrollata e aveva preso uno sgabello. Immersa nella
polvere, c’era una valigia. Nicolaëvic l’aveva afferrata con un
gesto calmo, e un denso pulviscolo si era disperso nell’aria. Un colpo
di tosse e poco dopo si era ricomposta la calma. Tutto quel silenzio
gli dava fastidio: se doveva partire, non doveva lasciar Mosca meschinamente.
Aveva spalancato una finestra e aveva lasciato entrare il rumore del
traffico. Si era voltato e aveva preso da un cassetto due pantaloni,
alcune camicie e un maglione. Ecco, era quasi pronto per partire. Si
era seduto sul bordo del letto e si era acceso una Kosmos, ne aveva
assaporato il fumo con un piacere intenso. La cenere cadeva insensibilmente
e la tristezza si impadroniva dei suoi pensieri. Gettando quel che rimaneva
della sigaretta sul pavimento con violenza, si era disteso sul letto
con le mani incrociate dietro la testa. Aveva fissato il soffitto e
aveva chiuso gli occhi solo a tarda notte. L’indomani, avrebbe comprato
un biglietto: solo andata. Per adesso non aveva la minima intenzione
di tornare indietro. Avrebbe raggiunto l’America; si immaginava attraversare
lo stretto di Bering e raggiungere Anchorage. Era arrivata l’alba e
il cielo era grigio. Nicolaëvic era stato svegliato dalla madre
che aveva le lacrime agli occhi: “Nicolaëvic, sbrigati, se
hai davvero intenzione di partire. Devi ancora prenotare l’aereo”.
Allora si era alzato, aveva aperto un cassetto e preso un passaporto.
Era riuscito a leggere: Nicolaëvic Dvinskij. Non doveva più
agire nell’illegalità, se lo stava promettendo e si impegnava
ad accettare quel proposito con la massima serenità. Aveva stracciato
il tesserino che aveva in tasca; il sorriso della foto si era disperso
in piccoli pezzi. Aveva salutato la madre frettolosamente e accettato
le due pagnotte che gli aveva offerto. Si era fermato a guardare il
fratello che dormiva ancora e lo aveva accarezzato con una mano nei
capelli. Così aveva preso la valigia ed era uscito senza voltarsi,
senza lacrime, senza sentimenti. Diceva addio a Mosca, guardandosi attorno,
respirando l’aria pungente e dopo pochi passi era sparito nella metropolitana
Una volta in quella terra lontana,
aveva tentato parecchie volte di imbarcarsi clandestinamente per gli
Stati Uniti. Tutte le volte, però, si era tirato indietro, incapace
di affrontare una nuova vita. Lo strazio dell’indecisione era durato
per due anni. Aveva trascorso tutto quel tempo lungo le spiagge di minuscoli
paesi, si era lasciato trascinare da pensieri malinconici mentre contemplava
il mare cupo e minaccioso. Non sapeva proprio decidersi. Ripensava agli
amici lasciati, alla casa e alla madre. Provava tutte le volte uno struggente
desiderio di tornare, ma rimaneva seduto tra le rocce, gustando lo spettacolo
che gli offriva la vastità del mare. Non riusciva mai a scorgere
una montagna, un promontorio o le luci di una città e sembrava
che oltre l’orizzonte ci fosse il nulla. Si sforzava di pensare alla
terra che voleva raggiungere. Tutte le volte che chiudeva gli occhi,
sprofondava in un mondo di sogni fantastici. Durante quel viaggio, Nicolaëvic
aveva imparato a sognare e si sorprendeva ogni giorno che passava, di
ritrovarsi ancora tra gli scogli. Si nutriva di fantasie e non riusciva
a distogliersi dal torpore mentale nel quale era scivolato. Ammirava
il volo di uno stormo, i pescherecci che rimanevano fermi al largo con
le reti distese nel mare, le lastre di ghiaccio che fermavano la rabbia
furiosa delle onde. Erano i momenti più belli e lo legavano inconsciamente
alla sua terra, la madre Russia. Perché allora partire? Era piacevole
vivere la semplice vita dei pescatori; loro si accontentavano di quel
poco che avevano per vivere. Si sentiva pieno di energie quando ritornava
a riva con il carico di pesce. Ma cosa avrebbe fatto nel futuro che
aveva davanti a sé? Anche se godeva di incantevoli paesaggi non
avrebbe potuto nutrirsi di sogni per tutta la vita. Il ghiaccio patinato
sul mare doveva sciogliersi. Non voleva tradire le sue origini, la Grande
Mosca, e poteva impegnarsi per la sua salvezza. Doveva ancora scontare
la punizione che aveva evitato; era sicuro che non sarebbe più
partito per la guerra, ma doveva rinunciare a qualcosa di suo per liberarsi
completamente dal passato meschino. Con calma e dopo aver percorso interamente
la Kalinina Prospekt fino alla via Herzen, entrò in casa cercando
di non far rumore. Salì su per le scale ed entrò nella
stanza del fratellino. Si accorse che era sveglio e gli si avvicinò.
“Domani ti porto al parco di Ostankino” disse e gli diede
un bacio sulla fronte. Uscì, chiudendo la porta dietro alle sue
spalle.