L’aeroporto di Dubai è così lungo che per percorrere i terminal B e C ci impieghi una vita. Se poi arrivi al terminal A e devi fare il trasferimento, hai bisogno di prendere il trenino. Un’angoscia. Capisco perché i trasferimenti non sono mai meno di tre ore, col tempo che impieghi… E nel frattempo ti perdi in queste cattedrali di marmo e di acciaio, dove diresti di trovarti in qualsiasi posto ma mai in un aeroporto.
A mezzanotte e dintorni, tutti i duty free shop sono aperti, e quando dico “tutti”, saranno almeno una trentina. Prendere l’aereo diventa un impegno secondario. Devi essere preparato spiritualmente ad entrare e uscire dai negozi. Certo, perché il tuo percorso è pari alla Camminata e Gusta di qualche valle valtellinese. Non faccio nessun pit-stop, mi fermo in un’aerea ricarica, dove dormono tutti mentre le ricariche vengono infilate nelle prese. Sono circondato da piedi, da veli, vestaglie, mi sento attorno un lieve russare. Tiro fuori il computer e mi concentro. Ho la bellezza di tre ore. Ormai sono perfettamente organizzato nello scrivere i diari di viaggio. Scarico simultaneamente le foto dal cellulare, le converto in un formato accettabile per internet e assemblo tutto. Attorno a me, la morgue. Signore, signore, sta bene? La signorina da parte ha la sciarpa sugli occhi. Mi sento come Jesus Christ poco prima di entrare nel tempio, quando si ricarica di suo, e inizia a dare di matto. Dovete vegliare, mica dormire. Guardare il tabellone!
Mi trattengo, potrei finire in qualche segreta di Dubai che vorrei rimanesse tale. Ricompongo lo zaino, tragedia, salta la zip, non la posso chiudere. Dundio, e parte per me la marcia longa per prendere uno zaino. Ne trovo uno bello, della Sansonite, 400 euri. Ma stiamo scherzando. Quello da parte identico, 40 euro ma non è Samsonite. Per di più i prezzi in uno è segnata la sigla DHS e nell’altro AED, la divisa corrente degli emirati. Trovo la sfigata, che mi chiede se ho bisogno e gli faccio un pippone lunghissimo, ma come può costare 10 volte di più? E lei senza recedere di un millimetro, mi ripete come un mantra: è della Samsonite. Trattengo l’irrazionalità, lei è lo di più. Vuole farmi comprare lo sgrauso dello zainetto non di marca, anzi insiste. Io non cedo e le dico che non le comprerò niente e mi trattengo da ogni commento. Siamo pur sempre a Dubai. Me ne pentirò perché nei mila negozi non ho più trovato zaini. E sono costretto ad abbracciare il mio come un koala di modo tale che non si perda niente. In questa camminata longa, quasi quasi perdo l’aereo. Arrivo trafelato, con un dolore alle braccia, ipossiemico, con un ph pari a 7,1 e lattati alle stelle…
Partirà poco dopo l’aereo nel bel mezzo dell’aeroporto, tra i due terminal infiniti. Accanto a me una ragazza che mi guarda con odio, io di più. Ci ignoriamo, lei mette le pezze sugli occhi in segno di sfida. Le punto su di lei i filo d’aria gelido. Questa convivenza forzata si protrae per tutto il viaggio e credo di essermi perso l’alba più bella del creato. Mi stavo mangiando le mani, avrei preso ben volentieri una forbice per tagliarle quella capigliatura alla Farah Fawcett.
Spanciamo sulla pista dell’aeroporto, la riconosco l’isola, riconosco la piccola spiaggia all’inizio della pista nella quale con Mater cinque anni prima abbiamo fatto il bagno in attesta dell’aereo. Mi sento un po’ meglio. Aprono i portelloni e le persone escono risucchiate come in una vaschetta di tortellini a cui hai tolto l’aria. Ma siamo tra cielo e terra, tra mare e cielo. Io e il bestione. E vederlo lì, con le sue ali infinite, mi commuovo. Una rimbamba della Seychelle Civil Aviation Authority mi cazzia perché sto in mezzo alla pista a fare foto al Boeing 777. Ma dico? Tutti si sono fermati a fare selfie e caricare la foto millimetricamente perfetta e tu te la prendi con me?
Mando giù il rospo, mica mi farà vedere anch’ella le prigioni di Mahé? Ma la mando a fanculo mentalmente. Il soffoco ci agguanta tra la trachea e il torace, inizio a sudare come un mantice. Un’ora tutti pigiati al controllo passaporto. Il controllo è già stato fatto on line, volete farci morire? Aspetto silenziosamente, in un atteggiamento stoico. So che se faccio qualcosa di sbaglio ne andrà della mia vita…
Con orgoglio, come quello che grida Adriana sulle scale di Philadelphia, esco nella hall degli arrivi, brandendo in mano il passaporto. Cerco quello della Sixt, ci sono tutti, tranne lui. Mi riparte l’agitazione. Ma è possibile? In realtà arriva poco dopo le otto, magliettona arancione, capelli corvini, non sa mezza parola di inglese. Ma puoi? Il pakistano, o giù di lì, non è per niente simpatico. La cosa orribile è quell’unghia del pollicione giallissima che trasborda di quattro centimetri il dito. Da vomito. Cosa deve fare? Grattare il Gratta e Vinci? Comunque è svelto, mi porta l’auto completamente vuota di benzina, una Yundai Rossa, che deve aver visto momenti migliori, completamente arruginita, a cui si stacca il paraurti anteriore. Depongo la valigia proprio sulla ruota di scorta. Mi elenca tutti i graffiti e gli intarsi ricamati sulle portiere, sulla scocca, ha pure il tettuccio ammaccato. È smarmittata. Parto con la frizione in gola, si spegne davanti a tutti. Mi immagino uno scroscio di applausi e gli sfottò.
Esco rombando dalla rotonda, spero di prenderla nel verso giusto prima di fare altre figure. Ed entro trionfalmente nell’Agip. Riconosco la ragazza, lei no. Mi chiede di aprire il tappo. Incomincia una caccia al tesoro. Mi si apre il cofano, partono i tergicristalli. Lei alza gli occhi, mi allontana come dovesse allontanare un pachiderma. Sotto il tappettino, non vedi, idiota? Credo che quest’ultima parola non l’abbia detta ma non ci giurerei.
E finalmente sono alle Seychelle. Entro al primo Bennet, mi prendo lo zaino a 16 euro e mi lancio lungo la costa settentrionale, con curve strette a gomito, senza paracarri, con delle buche che non sfigurerebbero nella nostra Brianza e mi appisolo sulla spiaggia, in compagnia di due cani. Ogni tanto si spulciano e io mi vado a rinfrescare. Ripeto gli stessi gesti per tutta la costa, con lentezza. Guidare alle Seychelles è un atto di fede. Non ci sono regole. C’è un flusso, e io ho imparato a dare la precedenza a tutti quelli che mi chiedono strada. Prego accomodati. A momenti ci scontriamo sulla rotonda, perché sono sulla corsia esterna e non esco alla prima uscita, il truzzo è sulla corsia interna e ha intenzione di svoltare alla prima uscita. È tutto un fair play. Inchiodiamo le auto a due centimetri dai paraurti e dico, prego, passi… Così per tutti. Tanto la mia auto non va a più di 20 all’ora, meglio così perché non frena nemmeno tanto bene.
Arrivano le tre, pensavo di essere puntuale, ma l’acquazzone che è spiovuto su Victoria, il mio giretto per il centro, mi sono perso a guardare la mia piccola Bombay, minuscolissima. Ho ritrovato tutti i punti di riferimento. Peccato che le pozzanghere mi risucchiavano dentro e a momenti annegavo ad ogni passo. Ma c’era anche il sole, ma c’era anche il vento, ma c’era anche un soffoco… Alle 16, dopo un’ora di ritardo arrivo al mio Castaway Lodge, proprio come un naufrago…