Ho passato la serata all’albergo. Non avevo voglia di uscire. Ero stanco, avevo già preso troppo freddo. Ho visto tutto quello che volevo vedere, mi sono pure fermato a Sigtuna. Ci sarebbe stata anche la città di Uppsala ma ero troppo cotto e non ce l’avrei fatta.
L’albergo aveva un ristorante, più che altro un servizio mensa. Alla reception dovevi ordinare, pagare e poi sederti al tuo posto.
Ho preso il classico fish and chips, un toast con i gamberetti come aperitivo e un pankake alla nutella, il tutto per la modica cifra di oltre 400 corone (stica, fate voi il cambio)…
Ma va bene, visto che era l’ultimo giorno.
Oggi era il giorno del rientro. Ho calcolato tutti i tempi perfetti, ma evidentemente ne servivano molto più. Dall’albergo all’aeroporto ci sono cinque chilometri. Sembrava tutto perfetto e ci sarei stato nei tempi. Ma…
La pompa di benzina. Io non capisco perché nei pressi degli aeroporti non si trovi mai un distributore neanche a pagarlo. Tutte le volte una gran fatica e giri giri sempre attorno come un cretino. Mi ricordo veramente di aver perso mezze giornate intere per nulla. Quello di Arlanda è ben nascosto, non visibile dall’autostrada ed è segnalato con un semplice pittogramma grande quanto un francobollo.
Fatto il pieno, passo dalla Rent Car, tre chilometri dall’aeroporto. Lascio con disinvoltura la mia Volvo V60 un po’ dispiaciuto nel lasciarla. Mi stavo proprio abituando bene. Il ragazzotto della Hertz, non propriamente dalle fattezze squisitamente svedesi, ha ispezionato ogni centimetro della carrozzerie, mettendosi in pose assurde per guardare anche negli angoli più remoti. Non ha trovato nulla di anomalo, povero illuso, semmai qualche briciola di biscotti.
Così, appiedato e appesantito, aspetto il bus che porta ai terminal. La puntualità scandinava si è fatta attendere. L’8.54 non è passato, il 9.005 è arrivato con 15 minuti di ritardo. Ho incominciato ad agitarmi. Due ore prima è il minimo sindacale previsto per i voli internazionali. Io ormai ne avevo perso una buona mezz’ora.
Non solo, il bus si fermava al terminal 4 e non al 5 dove sono stati trasferiti tutti i voli. Perché dunque non lasciarci direttamente al 5? No, perché tra il 4 e il 5 c’è lo Sky City, il centro commerciale dell’Arlanda. E tu devi essere obbligato a passarci dentro altrimenti nessuno si fermerebbe. E che palle. Percorri tutto il 4, lo Sky City e tutto il 5 perché i banconi della SAS sono proprio in fondo al terminal. Praticamente un chilometro e mezzo di marcia forzata.
Al check in la candida signora mi chiede se ho compilato il modulo EU-PLF. Eu… cosa? Le dico con sguardo interrogativo con una faccia da omicida. Guardi, scannerizzi il codice. E scannerizziamo il codice. Intanto maledico la SAS e tutti i burocrati europei. In Italia non me l’hanno chiesto. Ma intanto tu SAS, visto che me lo chiedi, perché non me lo dici quando faccio il check-in on line?
Iscriviti, scegli la password, metti le dita nel naso, valida l’indirizzo email, loggati con l’account attivato e iniziano le domande. Volo SAS e che ne so, ora di partenza, ora di arrivo, grattati la tempia. Indirizzo in Italia, viaggi fatti negli ultimi 14 giorni, giramento di palle, indirizzo e-mail consorte/compagno. Figli, non figli, segno zodiacale, ambarabaciccicoccò, dai un bacio a chi vuoi tu. Dopo mezz’ora completo il tutto. Finalmente faccio il check-in.
Altra marcialonga fino alla sicurezza. Negli stessi sportelli arrivano non una ma tre signori in carrozzina col parkinson avanzato. E tu dici: pecché? Conto fino a 10 mila. Mi cadono le brache perché non avevo la cintura. Passo i vassoi. Il negretto non contento di aver separato il computer e la macchina fotografica, mi prende lo zaino. Allunga i fili, li sbroglia, controlla dentro l’obiettivo, lo zoom. Passa tra le mani le batterie, misura la lunghezza dei cavi. Ammira la presa multiuso che avevo comprato in Australia. Aiiiiiuto. Vuoi vedere qualcosa d’altro? Deficiente di uno. Scommetto che vai a battere su qualche sito di dating, per essere così curioso come una capra.
Ripassa i vassoi nello scanner. Io che sono incazzato. Ormai il gate è aperto. Devo ricomporre lo zaino. E no, caro mio, hai rotto le palle. Io non prendo i vassoi e mi sistemo sul tavolo. Lo faccio davanti a te, bloccando le altre mila di passeggeri. Idiota. E non mi far pressa che rallento ancor di più. Arrotolo i fili, dispongo gli obiettivi come non ho mai fatto, mi gratto le palle, chiudo la cerniera e mentalmente alzo un dito medio al ragazzo. Ormai è una sfida aperta.
Finito tutto, scatto di 200 metri al secondo, percorro tutto il dutyfree shop. Altro che olimpiadi. Rischio di far rotolare giù i preziosi e lussuosissimi whisky, profumi e tobleroni. Ma non me ne frega. Il gate è in fondo al terminal. Perché tutte le cose sono in fondo a qualcosa? Dio santo. Arrivo al gate, ormai già mezzo imbarcato. Tiro fuori la carta di imbarco, sulla passerella rallento, tiro un fiato di respiro e lentamente mi imbarco dalla scaletta posteriore.
Ci sono soltanto io nella piazzola dell’aereo. A momenti mi allontano la scaletta mentre sono sui gradini. E no, devo fare le foto… Mica pizza e fichi. Adesso mi aspettate. Una foto alla coda, una alla fusoliera, una all’aeroporto e un selfie. Appena dentro, l’hostess con fari burberi mi chiude il portellone in faccia, quasi a dirmi e sbrigati mongolo di un italiano.
La fila 20 mi odia perché il posto è accanto al finestrino mi svacco giù. Ho il tavolino infilato nello stomaco perché la signorina che non voglio evocare con epiteti volgari, ha deciso di dormire come se fosse sullo sdraio del mare di Creta. Mi faccio forza, chiudo gli occhi, riconto fino a 10 mila. E parto, parto per il ritorno. Amen.