Le luci scintillanti di Varsavia ieri, il Novotel, un palazzone nel centro di Varsavia, il cielo azzurro della città di stamane: per un momento mi hanno fatto credere di essere in gita, un tour nella mia Varsavia. Ma è bastato poco, quei dieci chilometri che ci separavano dal Palazzo dell’Expo, perché mi arrivasse addosso tutto il peso della guerra.

Tutto assieme, in un colpo solo.

Bastava entrare negli stand espositivi, e tutta la variegata umanità in disgregazione era lì davanti a te. Ottomila persone sulle brandine, giovani, anziani, nonne, bambini, incrociavano il mio sguardo. E non ho potuto distogliere lo sguardo, anche perché ero dentro nel ventre molle di Varsavia.

Non sapevo cosa fare, quelle tre parole di russo le rivolgevo ai bambini: come ti chiami ??? ???? ?????, come ti chiami?

Tutti mi rispondevano senza esitazione con voce squillante il proprio nome. Non sapevo come continuare dopo aver fatto il brillantone. E mi sentivo un’idiota. Un micio sotto un letto mangiava da una ciottolina. Sono scappato e me lo sono accarezzato tutto. Ma lui di me, non gliene fregava niente e si divincolava. Ma almeno non guardavo la morgue di letti dove gente senza sorriso era rassegnata.

Il piano di sotto era ancora peggio. Ho cercato di fare delle foto, ma non per curiosità per testimoniare al mondo intero quell’inferno madornale. La volontaria mi ha subito cazziato, a dire il vero abbiamo cercato di chiedere intercessione dalla polizia ma non c’è stata possibilità. Con il cellulare qualche foto la scattavo, ma sentivo il fiato della Polizia sul collo. A parte i due rimproveri, alla fine mi hanno lasciato fare… Non ho osato però prendere la macchina fotografica.

Sono iniziate le public relation, la cosa più triste, cercare la gente che venisse con noi in Italia. Sembravo di essere il tour operator. Italia, cool, lago Como, montagne, sole. Mi sentivo un bugiardo, ma non perché dicessi cose non vere. Ma come potevo illustrare a loro le meraviglie dell’Italia quando non ci credevo neanche io?

Mi veniva da piangere. Abbiamo convinto la nonnina di 83, anchilosata, con la copertina rosa sulla testa. Le ho detto quell’altra parola di russo zdravstvujtye, il saluto generico, una specie di ciao un po’ più formale. Mi ha sorriso, mi ha baciato le mani, ha pianto, l’ho accarezzata. Ha subito inveito contro i Russi. I Tedeschi non hanno fatto quello che stanno facendo loro. L’ho baciata. Me la sono stretta. Le ho regalato l’Italia.

E poi gli animali che mi scodinzolavano, che mi mordicchiavano le mani. Io ero veramente inutile in quella posizione. Era tutto assurdo. Era difficile convincere le persone, dire loro di lasciare tutto e venire in Italia. Subito e ora.

Tremendo.

Alle 14, dopo questa penosa peregrinazione e aver raccolto un congruo numero di persone, siamo tornati in taxi in centro, all’albergo per ritirare le valige e raccattare il pullman. Il viaggio sul taxi mi ha rinfrescato l’animo. L’autista, anche lui ucraino, manco farlo apposta, ma molto fortunato, era un ragazzo giovane, scapestrato ma simpatico. Ha piantato a palla l’autoradio, e si è gettato nel traffico di Varsavia con scioltezza, in velocità. Io mi aggrappavo a quella ventata di spensieratezza, gli altri dietro erano preoccupati. Io no, sarei stato in giro con lui come un truzzo senza problemi per la città. Sentivo che mi faceva bene all’anima che continuava a sanguinare. I palazzi scorrevano veloci, le macchine venivano schivate all’ultimo millimetro. Ma ero contento. Varsavia stava facendo del suo meglio per consolarmi.

Alle 3 torniamo indietro, dopo aver guardato di nuovo il palazzo della Cultura. Questa volta col bestione. Sono stato scelto come navigatore ufficiale per arrivare al padiglione fiera. Mi sentivo un grande esperto della città di Varsavia. Arriviamo all’Expo. In queste due ore abbiamo perso un po’ di persone che ci avevano confermato la disponibilità.

È iniziata la processione di public relation ma questa volta non ce la facevo. Dovevamo arrivare a un punto. Prima cosa da fare, liberare il pullman dal carico di viveri. Anna, l’aggancio alla fiera, ha voluto che lo portassimo in un paese vicino. Le abbiamo creduto, ho forzato la mano, imponendomi e dividendoci. Noi maschietti andando all’Arena di Legionowo, le altre del gruppo rimanendo lì a convincere la gente. Altrimenti non saremmo arrivati da nessuna parte.

Non so se ho fatto bene, abbiamo lasciato i viveri in questo posto dove sarebbero arrivati dei profughi di Mariupol. Boh, mi sono sentito amareggiato. Ma abbiamo lasciato le scatole lì con una brutta sensazione. Insomma dovevamo fidarci. Avevo il morale a pezzi. Siamo arrivati di nuovo all’Arena. Io non volevo più entrare. Ho dovuto valutare una bambina che vomitata, ma alla fine la famiglia non se l’è sentita di venire con noi. Abbiamo raccolto 23 persone, con fatica, lentamente.

Uscivano alla luce crepuscolare. Io non ce la facevo più di quello strazio. Ho registrato il video come un gesto apotropaico. Ho distribuito mascherine, mentre la burocrazia procedeva nello scambio delle informazioni e dei dati.

Siamo partiti da Varsavia alle 19 e io mi sono sentito stanco e pesante, affamato. Sapevo che il più era fatto ma ora ci mancavano 20 ore di cammino.